Non c’è dubbio che l’Officina Ferrarese, pubblicata da Roberto Longhi nel 1934, vada annoverata tra le pietre miliari della storia della critica d’arte europea. Letto, riletto, compulsato quel testo, l’eccellenza della scuola ferrarese appare oggi come una verità talmente acquisita che quasi si ha pudore a citare. A chiusura di quella straordinaria stagione artistica, Longhi buttava lì il nome del poco noto pittore Carlo Bononi (Ferrara, 1580? – 1632), e, a dirla tutta, dopo generazioni di giganti al servizio degli Este (Ercole de’ Roberti, Cosmè Tura, Boccaccio Boccaccino, Dosso Dossi, tanto per citarne alcuni), la scelta di Bononi, fuori della congiuntura geografica, assomigliava più a una chiosa ricercata che a un incontrovertibile dato di fatto. La mostra in corso a Palazzo dei Diamanti di Ferrara (Carlo Bononi. L’ultimo sognatore dell’Officina ferrarese, fino al 7 gennaio), magistralmente curata da Giovanni Sassu e Francesca Cappelletti, dimostra esattamente il contrario. Bononi ne esce infatti non solo come un artista di indubbia qualità, ma anche come pittore estroso e geniale, capace di novità inventive in grado di gareggiare con quelle dei suoi predecessori quattro e cinquecenteschi.
Tom tom in riva al Po
Il percorso è costruito su un doppio binario: da una parte una rigorosa analisi stilistica, fatta di assonanze e comparazioni tra dipinti di Bononi e di pittori diversi, dall’altra una puntuale ricostruzione storica che coinvolge opere e cantieri, disseminati in un territorio scandagliato fin nelle sue zone più liminari, per comprendere il quale, se non si è nati in riva al Po, è bene munirsi di tom tom.
La scelta della location, benché abituale per gli eventi espositivi cittadini, è in questo caso quanto di più pertinente si possa immaginare. Cesare d’Este e la moglie Virginia de’ Medici chiamarono i migliori artisti sulla piazza bolognese, i Carracci, ad eseguire la decorazione di alcuni ambienti del palazzo, che comprendeva una serie di ovali con figure allegoriche (in parte ora alla Galleria Estense di Modena) copiati dai pittori ferraresi, tra cui Scarsellino e Bononi. Inoltre, nel primo decennio del Seicento, Giovanni Venturini e lo stesso Bononi eseguirono alcuni dei tondi, qui rappresentati dalla bellissima Giunone, correttamente restituita a Carlo da Eric Schleier.
Il soffitto fu decisivo per Bononi, collocandosi come l’estremo atto della committenza estense che apre le sue porte alla pittura d’avanguardia consentendole di mescolarsi con quella locale. Non a caso gli esordi di Bononi vengono ricostruiti sul filo del rapporto con Ludovico Carracci da una parte e con la tradizione locale, in particolare Scarsellino, dall’altra. Sembra comunque che il primo biografo di Bononi, il ferrarese Baruffaldi, non avesse torto nel sottolineare anche la vena veneziana e tintorettesca che percorre la pittura del ferrarese, molto evidente nei Santi Lorenzo e Pancrazio di Casumaro, esposto tra le opere che aprono la mostra. Nella stessa sala colpisce poi la potenza michelangiolesca della misteriosa Sibilla (Fondazione Cavallini-Sgarbi), eseguita nei primi anni del Seicento per l’Oratorio della Confraternita dell’Immacolata Concezione, insieme ai dipinti di Ludovico Carracci e Federico Zuccari.
La maturità di Bononi non è però solo siglata da accenti emiliani e veneti, tutto sommato a portata geografica, il cui apice appare segnato dalla decorazione della chiesa di Santa Maria in Vado (dinanzi alla quale Guercino avrebbe versato «lacrime di giubilo»), per forza di cose evocata in mostra da alcuni disegni, oltre che da un funzionale touch screen. No, la sua pittura volge anche, infatti, là dove «l’aria si abbuia appena» (Longhi), verso un naturalismo inedito a queste latitudini, tanto da dover postulare un viaggio a Roma, peraltro registrato dalle fonti. Sotto quali uffici e in che tempi Bononi giunse nella città eterna, il pur accurato scandaglio archivistico condotto in occasione dell’esposizione da Andrea Marchesi, da Cecilia Vicentini per le collezioni, e da Barbara Ghelfi, che si occupa del patronage dell’artista, non è riuscito a dettagliare. Tuttavia le componenti stilistiche romane e in particolare «caravaggesche» traspaiono potentemente in alcune sue opere, come segnalato dalla critica degli ultimi anni, e come efficacemente rilevato da Francesca Cappelletti in catalogo.
Due sono i pezzi da inserire nella playlist più hard di Bononi, il meraviglioso San Paterniano che risana la cieca Silvia di Fano, certamente a giorno del Miracolo di San Benno nella chiesa romana di Santa Maria dell’Anima (come già individuato da Andrea Emiliani, autore della prima monografia sull’artista), che ora sappiamo venne saldato a Carlo Saraceni il 21 luglio 1618. La data della tela romana va presa come un punto fisso per ancorare il soggiorno capitolino di Bononi. Settimana più settimana meno, Carlo dovette vedere e registrare la potenza dell’invenzione di Saraceni che traspare nel telero marchigiano. Le opere dialogano in particolare nell’impaginazione e nell’attenzione riservata ai bellissimi ritratti, tra cui si individua molto probabilmente l’autoritratto dello stesso pittore che osserva la scena. Il secondo pezzo è il celeberrimo Genio delle arti, un quadro che rappresenta una delle più alte e personali interpretazioni dell’Amore vittorioso dipinto da Caravaggio per Vincenzo Giustiniani.
Stanza grande dei quadri antichi
Il destino della tela caravaggesca, che troneggiava nella «stanza grande dei quadri antichi» di palazzo Giustiniani coperta da un drappo di seta, come era d’uso per i dipinti più preziosi e come, nel caso di Caravaggio, accadde alla Giuditta che taglia la testa a Oloferne di Ottavio Costa, fu quello di non essere mai stata copiata ab antiquo, esattamente come la Giuditta. Le derivazioni furono però molteplici. Bononi muta il protagonista, non più Amore, ma un Genio, ma la sostanza cambia poco: la straordinaria natura morta costituita dai simboli delle arti, e il bellissimo nudo giovanile, l’arditezza e la sensualità della posa, il chiaroscuro delle carni, affiorano anche nel dipinto del ferrarese. La tela era un tempo letta come una rara testimonianza di Bononi profano, un genere che invece grazie ai decisivi studi di Giovanni Sassu sappiamo ora frequentato da Carlo. Non bastano Guercino e Lanfranco, più volte e a ragione chiamati in causa come punti di riferimento stilistico dalla mostra: a giustificare questo quadro ci vuole Caravaggio in persona.
Senza questa fiammata naturalistica risulterebbe incomprensibile anche uno dei capolavori dell’artista, il bellissimo Angelo Custode, «Angelo veramente sceso dal Paradiso!» (come esclamava una fonte ottocentesca) che già Emile Mâle leggeva come uno dei capolavori della pittura religiosa del Seicento. La tela proviene dalla chiesa di Sant’Andrea, scrigno di gioielli pittorici, se si pensa che vi era custodito anche il polittico Costabili di Garofalo e Dosso. Le ricerche condotte in occasione della mostra hanno aggiunto alcuni tasselli alla biografia del committente dell’Angelo, Sigismondo Carpi, permettendo di anticipare di qualche anno la datazione del dipinto. Questioni filologiche a parte, la tela svela la straordinaria abilità nella resa del nudo maschile e la sala che la accoglie in mostra è tutta giocata su questo tema ospitando il San Sebastiano di Guido Reni accanto alle due trattazioni dello stesso soggetto di Bononi e al Compianto su Cristo morto.
Siamo intorno alla metà del terzo decennio del Seicento, ma il percorso dell’artista non è affatto concluso. Da qui in avanti Bononi comporrà opere di una eccezionale armonia e felicità inventiva, quasi tutte di destinazione ecclesiastica, come la luminosa Santa Margherita in trono e i santi Francesco, Giovanni Evangelista e Lucia del Museo diocesano di Reggio, dove la componente emiliana, lanfranchiana e correggesca si mostra arricchita dai molteplici accenti romani, per toccare infine corde di fine intensità emotiva e drammatica nel San Luigi di Francia invoca la fine della peste del 1632. Non a caso redatto poco prima della morte, questo testo, degno di essere incluso tra le opere dei «pestanti» di testoriana memoria, costituisce il congedo inaspettato di un artista di rara capacità espressiva, oltre che di indubbia maestria disegnativa e coloristica: un campione del Seicento italiano.