A volte per aggiungere uno sguardo nuovo su un artista bisogna avere il coraggio di togliere. La grande mostra della Tate Modern su Pierre Bonnard The Colour of Memory (fino al 6 maggio, a cura di Matthew Gale) rischiava di essere una replica di una serie iniziata nel 2006 con l’indimenticabile retrospettiva al Musée d’Art Moderne di Parigi (2006), proseguita poi con quelle di Basilea (Fondazione Beyeler, 2012) e nuovamente di Parigi (Musée d’Orsay, 2015). Nella sequenza si era inserito anche il Metropolitan nel 2015, con una mostra più di taglio, dedicata solo agli interni dell’ultimo periodo dell’artista.
Alla Tate non si sono smarcati seguendo un approccio particolare ma a un certo punto del percorso, nella sala 8, hanno fatto la scelta di presentare cinque opere di Bonnard senza cornici. Sono tutte opere degli anni tra 1919 e 1925, di proprietà del museo londinese e della NY Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, dove la mostra approderà a giugno. Questo ha reso possibile un’operazione che gli altri prestatori difficilmente avrebbero permesso. Liberate dal «gravame» delle cornici le cinque tele hanno recuperato una condizione originaria: quella che avevano quando erano nello studio di Bonnard, come documentato da tante foto e come anche testimoniato dal ritratto che nel 1930 gli fece Edouard Vuillard: nella mitica tana di Le Cannet vediamo Bonnard con quella sua sagoma allampanata mentre, dandoci le spalle, sta guardando una propria tela appesa sopra il divano e ovviamente libera dalla cornice.
Sappiamo che Bonnard dipingeva con la tela direttamente appesa al muro e senza cavalletto; e sappiamo anche che dal suo studio i quadri uscivano per andare da galleristi o collezionisti «nudi» e senza cornice. Cosa svela il recupero di questa condizione originaria? Bonnard, con un malcelato snobismo, quando visitava i musei ripeteva che la cosa più interessante che aveva visto erano le finestre. I suoi quadri messi direttamente sul muro inseguono lo status per lui superiore che è quello di essere delle finestre. Varchi aperti, in un gioco di illusioni, in quanto molte volte la finestra è in realtà lo specchio di un interno.
Tra i quadri spogliati dalla cornice c’è uno dei suoi capolavori, La salle à manger, Vernon, del 1925, conservato a Copenaghen (un quadro al quale in catalogo viene dedicato un intero saggio, firmato da Line Clausen Pedersen). A confronto con le foto abituali, compresa paradossalmente quella in catalogo, sembra un altro quadro, in quanto la cornice «mangia» alcune linee ai confini della tela, che non solo hanno un peso compositivo ma soprattutto insistono sull’idea che quell’immagine sia una sorta di apparizione. Linee che sembrano quasi un’aureola disegnata a circondare l’immagine.
Il mondo di Bonnard è un mondo irriducibilmente intimo. La categoria di «interno» per lui non è semplicemente ambientale; è un orizzonte protetto e inviolabile nel quale poter fare accadere visioni radicali che attingano alla sorgente della luce e del colore («La couleur m’affole», diceva). Nella Salle à manger si respira un che di claustrofobico con quelle due figure mute, inghiottite dal pulviscolo dell’aria, nell’estate normanna; quasi dei fantasmi, come quel volto che si specchia nel vetro della finestra e che non sappiamo dove stia e chi sia. L’interno, più che un ambiente, è uno spazio mentale che grazie al supporto della tela riesce a venire in emersione e a dar vita a un evento pittorico di straordinaria intensità. Clausen Pedersen nota come la composizione si articoli per blocchi di colore con rimandi sempre ragionati. Le linee chiudono porzioni di quadro, che così sembra moltiplicarsi e proliferare al proprio interno in un gioco infinito.
C’è un aspetto ossessivo in questo andamento tutto centripeto della pittura di Bonnard. Del resto la sua biografia privata parla molto chiaro. Nel 1893 aveva conosciuto del tutto casualmente la donna con la quale condivise, per oltre cinquant’anni, questo percorso di progressiva separatezza dal mondo. La storia vuole che l’avesse vista scendere da un tram e l’avesse inseguita. Lei si era presentata con un nome falso, Marthe de Méligny, che sarebbe stato il suo per il resto della vita; Bonnard la sposò solo nel 1925, sotto la pressione di un’altra storia d’amore, quella con Renée Monchaty, portata forzosamente al fallimento (un fallimento tragico: Renée si uccise quello stesso anno, sparandosi su un letto cosparso di lillà bianchi). Per trent’anni aveva vissuto con Marthe senza sapere che il suo vero nome era un altro, assai meno altisonante, Marie Boursin. Marthe-Marie, dunque, da una parte è un incubo, con la sua misantropia e i continui problemi di salute, dall’altra è un destino che permette a Bonnard di darsi un orizzonte protetto nel quale affondare nel suo inferno-paradiso pittorico.
Se l’avvio della sua avventura era stato quello intimo e riflessivo della stagione nabis, il resto della sua parabola è tutta proiettata verso una direzione cosmica. Nello spazio asfittico del bagno, vero epicentro della vita coniugale in quanto Marthe per ragioni di salute aveva necessità di tenere il proprio corpo in acqua, Bonnard articola discorsi pittorici spericolati, che hanno a che fare con il destino, con la vita e con la morte. Nell’aria piena di sole della casa-tana di Le Cannet, il corpo di Marte nella vasca affonda come quello di Ofelia; in uno dei quadri «scorniciati» sembra quasi uscire dallo spazio tela, trasportata dalla corrente del destino. A proposito di ossessioni, nel 1946 Bonnard riprenderà lo stesso soggetto, anche se Marthe è già morta da quattro anni: l’atmosfera si è fatta più crepuscolare, i colori hanno anche vibrazioni drammatiche, ma lei nella vasca (o bara?) mostra un corpo sempre giovane. L’angusto orizzonte del bagno, ancora una volta apre percorsi pittorici di imprevista profondità e ampiezza.

È ancora Marthe a occupare l’angolo di quel capolavoro arrivato dal Pompidou e datato 1939-’46, L’Atelier au mimosa, che non rappresenta altro che una grande finestra inquadrata in un interno dalle dominanti rosa. Se l’incendio giallo del cespuglio sembra quello di un Monet vissuto in una stagione atomica, le masse di colore sul lato sinistro, come quelle già intercettate nei riquadri della finestra dell’interno di Vernon, suggeriscono un altro rimando, questa volta cronologicamente in avanti: sembrano infatti annunciare i blocchi di colore cosmico di Mark Rothko. Gli straordinari autoritratti di Bonnard, autorizzano persino a cogliere affinità somatiche tra i due, con quegli occhiali incollati al volto, che sbarrano la vista piuttosto che agevolarla. Sullo sfondo più volte replicato, una porta o forse una finestra sbarrata disegna riquadri dove masse di colore – un giallo sporcato di rosso – finiscono con il riempire fisicamente lo spazio, lasciando in controluce il volto di Bonnard. Rothko avrà guardato…
Se la mostra della Tate non cade in ritualità è perché riesce a far scattare suggestioni come queste, innescate dalla scelta di liberare cinque quadri dalle cornici che imbrigliano la sua pittura dentro un orizzonte ultimamente legato al gusto collezionistico di una stagione ormai passata. Il suo intimismo è radicalmente diverso da un’idea di intimismo borghese, anche se le apparenze a volte possono portare lì. È un intimismo in stato di perenne tensione, febbrile, eccitato, affollato di conflitti come le pagine di Proust. E se una dimensione privata resta dominante, si misura sempre con l’imminenza di un naufragio, di una perdita, senza proteggersi con cornici.