Diversamente dalle vite parallele, che mai s’incrociano, quelle di Emma Bonino e Marco Pannella sono da sempre intrecciate, ora anche nella comune malattia e nell’identica scelta di renderla pubblica, facendone così fatto politico. Lo si può leggere come una parabola in senso evangelico (e non geometrico) di tutta la storia radicale.

Tra le parole d’ordine di quella storia, «dal corpo del malato al cuore della politica» è una delle più autentiche, perché capace di indicare l’archè dell’esperienza radicale: la persona – fatta di carne e ossa, parola e carezze – come origine da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna.

Non a caso, le battaglie di scopo radicali sono sempre riassumibili nell’immagine di corpi: gioiosi, nelle lotte per la liberazione sessuale e omosessuale. Autodeterminati, nelle campagne per il divorzio, l’aborto e le politiche antiproibizioniste. Scheletrici, nella lotta alla fame nel mondo. Stuprati e trucidati, nell’impegno per una Corte penale internazionale. Immobili eppure vitali, come quelli di Luca Coscioni e Piero Welby. Reclusi, nella battaglia per la legalità nelle carceri o per la chiusura dei manicomi. Già morti eppure ancora vivi, nelle campagne contro l’ergastolo o per la moratoria all’Onu sulla pena di morte. Amputati, nella lotta contro le mutilazioni genitali femminili.

La politica radicale, dunque, è fatta di corpi. Dove la corporeità dei diritti da conquistare esprime la concretezza dell’obiettivo rivendicato, e chiama alla mobilitazione ogni singolo individuo indipendentemente da appartenenze politiche, scardinate anzi nella loro sclerosi ideologica. È così che quello radicale, partito di minoranza ma non d’élite, ha saputo dimostrare nelle lotte vinte un’originale vocazione maggioritaria.

Non è tutto qui. La politica radicale di Pannella e Bonino è sempre stata un corpo a corpo in un senso ben più profondo. Lo si coglie nella differenza tra il violento e il nonviolento: se il primo dà corpo al nemico per vincere, il secondo dà corpo alle proprie idee per con-vincere. Lo fa negli strumenti di lotta prescelti, perché sono i mezzi a prefigurare i fini: come il Satyagraha, che rende il corpo in lotta smagrito e assetato. Come la disobbedienza civile, che consegna il corpo militante alla reclusione in carcere. Come nell’uso persuasivo della parola, veicolata da un corpo ora imbavagliato, ora trasformato in tazebao, ora capace di torrenziali interventi ostruzionistici parlamentari, ora inchiodato in un letto dalla malattia, ora piegato nel gesto – semplice ma decisivo – di una mano che firma un referendum.

Dentro questo uso nonviolento del corpo, a pulsare è il cuore del diritto, più ancora che della politica: il diritto è, infatti, violenza domata, strumento necessario a evitare la condizione belluina di tutti contro tutti. Origina da qui l’assillo radicale per la legalità, che del diritto è il corpo centrale e senza la quale – prima o poi – c’è strage di vite umane, dunque di corpi. È un assillo che i radicali traducono non nell’eversiva invocazione di una legalità alternativa, ma nel richiamo al rispetto della legalità costituzionale. Ben sapendo che i principi e le regole della Costituzione sono una costellazione normativa che ruota attorno alla dignità della persona: non astratta ma situata, corpo umano tra altri corpi umani.

Oggi, nel rifiuto dei due leader radicali di rendere le proprie biografie personali identiche alle loro cartelle cliniche (il copyright è di Philip Roth) è facile rintracciare la coerenza con questa storia politica comune.

L’inviolabilità della persona umana postula il potere di ciascuno di disporre del proprio corpo. E di non alienarlo a chi pretende di avere su di esso l’ultima parola: sia esso il potere politico o medico. Il potere, infatti, torna a essere espropriazione e imposizione sui corpi quando prescinde dal consenso delle persone. E il consenso medico, come quello politico, per essere autentico presuppone informazione: altra battaglia storica dei radicali, le cui lotte sono per i media invisibili, cioè – paradossalmente – incorporee.

«Io non sono il mio tumore», ha detto Bonino, rivendicando per sé e per tutti i malati il diritto di «voler vivere liberi fino alla fine». Nessuna volontà di potenza in queste parole, bensì la consapevolezza che il corpo umano non può essere considerato altra cosa dalla persona che lo abita. Ancora una volta plagiando Roth, «esiste solo il nostro corpo, venuto al mondo per vivere e morire alle condizioni decise dai corpi vissuti e morti prima di noi», secondo quella comunione tra generazioni di cui spesso parla Pannella, evocandola come orizzonte capace di andare oltre la finitezza delle cose.

In questo modo di dichiarare e sfidare la malattia che li ha colpiti c’è più politica di quanto se ne possa spremere oggi altrove. D’altra parte, come si dice a via di Torre Argentina, noi radicali «siamo gente d’altri tempi, speriamo futuri». È l’augurio che faccio, di tutto cuore, a Emma e Marco.