Era tutto chiaro, detto, trasparente. Tra i due c’era pieno accordo, già dal 19 giugno 2018.

È quanto sostiene il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che con un colpo di reni cerca di levarsi definitivamente da quel pantano pericoloso che è l’accusa di essersi piegato ai desiderata dei detenuti mafiosi quando, due anni fa, preferì come capo del Dap Francesco Basentini (al suo posto ieri si è insediato Bernardo Petralia) all’ex pm della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo. Usa tutto il tatto possibile, il Guardasigilli grillino, ma stavolta, nella sua informativa alla Camera, mostra di aver perso la pazienza e si toglie tutti i sassolini che il consigliere del Csm gli ha infilato nelle scarpe quando una settimana fa è intervenuto in tv a «Non è l’arena» (La7) per raccontare una versione molto diversa dei fatti.

Quando, «martedì 19 giugno alle ore 11» si videro al ministero, i due si intrattennero a lungo. «Mi convinsi dopo la prima telefonata e, in occasione di quel primo incontro, che l’opzione migliore sarebbe stata quella di riproporre al dott. Di Matteo un ruolo equiparabile a quello che era stato di Giovanni Falcone. Avrebbe richiesto certamente più tempo e avrebbe implicato probabilmente una riorganizzazione del Ministero ma ne sarebbe valsa la pena perché, nel progetto che avevo in mente, gli avrei consentito di lavorare in Via Arenula, al mio fianco», afferma Bonafede.

«Come dissi al dott. Di Matteo, che avrebbe preferito quel ruolo, il capo del Dap non si occupa soltanto del fondamentale tema della gestione dei detenuti mafiosi». In quell’occasione parlarono anche delle esternazioni dei detenuti mafiosi registrate in carcere. Ma «la mafia, che vive di segnali, – sottolinea Bonafede – non sarebbe andata a guardare l’organigramma del ministero per verificare quale ruolo fosse più in alto o più in basso. La mafia avrebbe constatato una sola circostanza: Di Matteo, dentro le istituzioni, lavorava al fianco del ministro della Giustizia». «Non ragionai, lo ammetto, in termini di peso gerarchico del ruolo da ricoprire – osa il ministro rivolgendosi indirettamente al guru dell’antimafia, effige sacra del pantheon grillino – bensì di buon funzionamento del progetto».

«Accennai anche alla possibile nomina del dott. Basentini» e, «dopo un lungo colloquio ci lasciammo proprio con questa idea». Ma quello stesso giorno Di Matteo chiese un nuovo incontro. Il giorno dopo, «credevo volesse approfondire il nostro progetto, ma invece mi disse che non era più disponibile perché preferiva il Dap e io gli comunicai che avevo già avviato la nomina di Basentini».

Cosa ha spinto dunque, la sera del 3 maggio 2020, Di Matteo a rivangare una storia già digerita due anni fa? Forse lo si capirà del tutto quando sarà discussa la mozione di sfiducia presentata al Senato dalla Lega con FdI e FI. Di sicuro però non sarà questa settimana, come ha deciso ieri l’Aula respingendo la richiesta delle opposizioni di procedere subito (105 sì, 129 no, 3 astenuti). Bonafede intanto è atteso domani a Palazzo Madama (in giornata sarà ascoltato anche in commissione Giustizia, alla Camera) per un’informativa ancora sul caso Di Matteo e sulle cosiddette «scarcerazioni» dei detenuti. Che, ha spiegato ieri, sono state disposte «in piena autonomia dai magistrati competenti, nella maggior parte dei casi per ragioni di salute, e non c’è stato alcun condizionamento da parte del ministero o del governo».

Così come nessun condizionamento ci sarà a causa delle norme contenute nel recente decreto legge che Bonafede ha voluto come salvagente. A confermarlo è nientemeno che il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick: «Il testo non serve – afferma intervistato da Il Foglio – Stimola solo i magistrati a fare delle verifiche che già erano tenuti a svolgere. È un modo per cercare di salvare la faccia».