Gli Stati Uniti tornano in Iraq «per prevenire un genocidio»: a tre anni dal ritiro delle truppe a stelle e strisce da un paese a pezzi, la presidenza Obama ha lanciato ieri i primi bombardamenti contro le postazioni dell’Isil, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, oggi padrone di un terzo del paese. Nessun militare Usa metterà piede in Iraq, eventualità inaccettabile per l’opinione pubblica. L’intervento sarà mirato: bombe contro i jihadisti e aiuti umanitari alle decine di migliaia di cristiani e yazidi in fuga in questi giorni verso il Kurdistan. In una riunione a porte chiuse, giovedì notte, Obama ha annunciato l’avvio di un intervento simile a quello del 1991, quando la popolazione curda si ribellò contro Saddam Hussein e dagli aerei Usa vennero sganciati aiuti ai rifugiati in cammino verso la Turchia.

Ieri jet militari Usa hanno colpito con 500 bombe laser le postazioni dell’artiglieria jihadista a nord, poco fuori Irbil, capitale della regione autonoma del Kurdistan. L’escalation dell’intervento americano – nei mesi precedenti Washington si era limitata all’invio di esperti in centri di coordinamento delle attività militari – era stata richiesta sia dal Kurdistan che da Baghdad, entrambi minacciati dall’offensiva dei qaedisti, sempre più vicini sia alla capitale curda, Irbil, che a quella dello Stato centrale.
La presa della diga di Mosul, ufficializzata giovedì dalle bandiere nere issate sul più grande impianto idrico iracheno, ha peggiorato drasticamente la situazione. Le milizie di Al Baghdadi continuano ad avanzare, concentrando gli sforzi verso Nord, verso il territorio curdo: se nei primi due mesi di offensiva, i jihadisti avevano evitato scontri con i peshmerga, le ultime settimane sono state caratterizzate da vere e proprie battaglie, conclusesi con la decisione di Baghdad di sostenere gli sforzi militari curdi inviando l’aviazione.

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A monte del nuovo intervento degli Stati uniti sta la speranza malcelata dell’amministrazione Obama di premere per la formazione di un governo di unità nazionale che coinvolga sciiti, sunniti e curdi, ora profondamente divisi sul nome del candidato premier.
L’attuale primo ministro, Nouri al-Maliki, è considerato uno dei principali responsabili – accanto alla stessa Casa Bianca – dell’intensificazione delle divisioni settarie del paese. Malvisto da gran parte delle fazioni politiche irachene, Maliki tenta di resistere alle pressioni interne e estere e salvare la poltrona. Ieri, secondo i tempi dettati dalla costituzione irachena, il neo eletto presidente del parlamento avrebbe dovuto nominare il nuovo premier. Ma dagli scranni parlamentari, ieri utilizzati dalle varie fazioni per lanciarsi insulti reciproci, non sono usciti nomi. Tutto rimandato a domenica.

Giovedì notte Barack Obama ha parlato dalla Casa Bianca ricordando la responsabilità in capo agli Stati Uniti, «fare del mondo un luogo più sicuro e prospero», aggiungendo di «aver autorizzato bombardamenti mirati per aiutare l’esercito iracheno».
Il presidente ha dimenticato di menzionare i gravi errori compiuti in otto anni di occupazione e di ricordare che l’offensiva dell’Isil non si limita a Baghdad: si tratta di un’azione regionale che sta destabilizzando l’intero Medio Oriente, dalla Siria al Libano, passando per la Giordania, con il beneplacito dei paesi del Golfo che in questi mesi – anche con l’appoggio della coalizione degli «Amici della Siria» della quale fanno ancora parte gli Stati uniti (e l’Italia) alla fine hanno «indirettamente» foraggiato, finanziato e armato la milizia nata da una costola di Al Qaeda. Ma la Casa Bianca stavolta è stata chiara: nessun intervento nella vicina Siria, anch’essa parte del più ampio progetto qaedista di un nuovo califfato. «Non si tratta di una campagna di ampio respiro contro l’Isil – ha detto Obama – Non stiamo lanciando una campagna statunitense di lungo periodo. Il miglior modo per affrontare i miliziani è lasciare l’intervento agli iracheni». (E tanto silenzio sulla Libia dove la guerra della Nato ha portato all’«emirato di Bengasi»).
Sull’Iraq si muovono anche le Nazioni Unite che stanno lavorando all’apertura di un corridoio umanitario a nord dell’Iraq per consentire la fuga dei civili scappati dalle violenze, aggiungendo che è cominciato anche il lancio di confezioni di cibo agli sfollati: «Adesso che i bombardamenti sono cominciati – ha detto Nickolay Mladenov, inviato Onu in Iraq – le Nazioni Unite stanno preparando con urgenza un corridoio umanitario».