L’8 ottobre 2016 gli yemeniti sapevano già riconoscere il fischio delle bombe sganciate da un caccia. Era trascorso ormai un anno e mezzo dall’inizio dell’operazione a guida saudita contro lo Yemen.

L’avevano ribattezzata «Tempesta decisiva», si aspettavano una guerra lampo, ma Riyadh e i suoi alleati (dagli Emirati all’Egitto) hanno trovato – così dicono in tanti – il loro Vietnam.

QUEL GIORNO, alle 3 di notte, il villaggio di Deir Al-Hajari, nel nord-ovest del paese, vide cadersi sopra le bombe sganciate da un caccia saudita. Una casa rasa al suolo, una famiglia sterminata: la madre incinta, il padre e i quattro figli.

Sul luogo della strage di civili (testimoni raccontarono che vicino non c’erano postazioni militari dei ribelli Houthi), furono trovati resti di una bomba prodotta negli stabilimenti di Rwm Italia, la filiale sarda della tedesca Rheinmetall, riconoscibile dal numero di serie.

Quella bomba, come tantissime altre prima e dopo, era stata venduta da Rwm all’Arabia saudita grazie a una licenza concessa dal governo italiano, tramite Uama, l’Autorità nazionale per l’esportazione di armamenti.

Per questo tre organizzazioni (Ecchr – Centro europeo per i diritti costituzionali e umani, Rete italiana Pace e Disarmo e la ong yemenita Mwatana) nell’aprile 2018 avevano presentato denuncia alla Procura di Roma perché indagasse le responsabilità dell’azienda di Domusnovas e i vertici di Uama. Un anno e mezzo dopo, nell’ottobre 2019, la Procura aveva chiesto l’archiviazione, una decisione appellata dalle tre organizzazioni.

E ORA È ARRIVATA la risposta: il giudice per le indagini preliminari ha rigettato l’archiviazione, la Procura dovrà continuare a indagare penalmente Rwm e Uama per il ruolo svolto nella strage di Deir al-Hajari, una delle tante di cui in questi anni si è macchiata la coalizione anti-Houthi ma che diviene simbolo, prova concreta della globalità di una guerra che ha avuto come principali obiettivi zone residenziali, infrastrutture civili, ospedali, scuole, nel chiaro obiettivo di devastare la rete economica, sociale e civile dello Yemen.

«Accogliamo con favore la decisione di continuare l’indagine penale relativa all’attacco mortale a Deir al-Hajari – hanno scritto ieri in una nota le tre organizzazioni – Questa decisione dà speranza a tutti i sopravvissuti agli attacchi aerei mortali senza un obiettivo militare identificabile e che hanno invece ucciso e ferito civili».

Centinaia di migliaia di persone. Lo scorso dicembre l’agenzia dell’Onu Ocha aggiornava i dati sulle vittime del conflitto iniziato nel marzo 2015, numeri molto più alti di quanto finora calcolato: 233mila morti, di cui 131mila per cause indirette, ovvero fame e malattie.

ORA L’INDAGINE italiana potrebbe dimostrare il nesso, denunciato da anni dalle società civili europee, tra le armi vendute con l’avallo dei governi occidentali e la catastrofe umanitaria yemenita.

Le prove non mancano, i dati dell’export sono pubblici (vi invitiamo a navigare nel database dell’Unione europea, dove è possibile sapere quali armi e di quale valore ogni paese membro ha venduto a uno Stato estero): nel caso italiano 105 milioni in armi nel 2019, 13 nel 2018, 52 nel 2017 e così via. In totale l’Europa, dal 2013 al 2019, ha concesso licenze a Riyadh per 83,3 miliardi di euro.

È in tale contesto che lo scorso 29 gennaio il governo italiano ha deciso di revocare le licenze, già autorizzate ma non consegnate, a Riyadh e Abu Dhabi. Una decisione storica, in linea con la legge 185 del 1990 che vieta la vendita di armi a paesi coinvolti in conflitti o violatori dei diritti umani.

Tra le celebrazioni di chi da anni si batte per fermare il business militare, si è sollevata la voce contraria dell’azienda che ha fatto ottimi affari con le petromonarchie, la Rwm.

«PROVVEDIMENTO ad aziendam», aveva protestato l’ad Sgarzi. Rwm, già nei mesi passati, aveva giustificato casse integrazioni e mancati rinnovi dei contratti con la temporanea sospensione delle vendite ordinata dal governo nel luglio 2019.

Eppure, come abbiamo scritto su queste pagine, ha lavorato: in cantiere c’erano commesse da centinaia di milioni di euro per Qatar e Turchia. E anche per Riyadh, vecchie licenze non ancora consegnate. Altro che crisi.