È il Consiglio di Stato a porre fine, ai piedi di un pacifico lago dell’Abruzzo, ai sogni color dollaro della Forest Oil Corporation di Denver. I giudici, infatti, qualche giorno fa, hanno decretato lo stop definitivo al progetto del colosso americano di scavare pozzi per l’estrazione del metano e di innalzare una raffineria, con fiamme e camini, per la desolforazione del gas. «Troppo rischioso per il territorio e per la popolazione»: questo, in pratica, è stato sentenziato e la faccenda, che si trascinava da quasi sei anni e che ha stravolto il placido scorrere dei giorni a Bomba, borgo tra le colline della Val di Sangro, è stata bloccata/bocciata.

Era il 2009 quando la multinazionale statunitense del petrolio è approdata nel minuscolo centro lacustre – poco più di 800 anime – con uno stuolo di esperti. Facendo credere che avrebbe portato lavoro, risparmio sulle bollette energetiche e verdoni. Come? Con le trivelle. «Semplicemente» bucando ed estraendo gas in una zona geologicamente fragile, sconquassata dalle frane e a ridosso del lago artificiale nato, a cavallo degli anni Cinquanta-Sessanta, dalla costruzione di una diga in terra battuta, la più grande d’Europa all’epoca. Troppi regali, troppi vantaggi ventilati, il piano ha insospettito i residenti, che non si sono fidati di quei superingegneri che facevano la fila per convincerli della bontà dell’iniziativa.

Per «investigare e capirci qualcosa» si è costituito il comitato «Gestione partecipata del territorio», capitanato da Massimo Colonna, chimico, che ha coinvolto altri professionisti nell’analisi di atti e documenti.

Così, spulciando tra le carte e studiandole, è saltato fuori che si trattava in verità di uno scellerato progetto: impattante, inquinante e pericoloso. I cittadini sono stati informati, passo passo, delle scoperte. Ed è stata rivolta, con i balconi delle case riempite di lenzuola «No raffineria. No Forest Oil». Con cortei, tuonanti proteste capeggiate dalle signore del paesetto, con presidi e confronti pubblici con i cervelloni stranieri e il management Forest, approdati, più volte, in forze, a Bomba. Contestati, le loro tesi smontate: gli uomini Forest hanno dovuto ripiegare tra i fischi. «Le hanno tentate tutte – dice Colonna -, anche con le bugie. Ma qui abbiamo resistito».

Non hanno convinto quelli della Forest: neppure quando hanno raccontato che l’impianto avrebbe richiamato turisti e che le ciminiere, dipinte di verde ed azzurro per non deturpare, si sarebbero inserite perfettamente nel paesaggio di cespugli, volpi e caprioli. E’ stata battaglia dura, anche a colpi di ricorsi.

Lo scontro, che ha a mano a mano coinvolto altre associazioni ecologiste e movimenti, è stato soprattutto in sede di Valutazione di impatto ambientale del progetto da parte del Comitato Via della Regione Abruzzo. Che ha dato parere negativo, più d’una volta, «in considerazione dell’ubicazione del giacimento al di sotto del lago e della diga interna e delle conseguenze catastrofiche che potrebbero esserci se crollasse a causa della subsidenza provocata dalle perforazioni». Ma la Forest si è rivolta al Tar (Tribunale amministrativo regionale). E, in conclusione, la vicenda è approdata al Consiglio di Stato, quinta sezione. Che, nel pronunciarsi, fa prevalere l’interesse pubblico e dice che, prima di tutto, vengono la sicurezza e il «principio di precauzione» e motiva le proprie decisioni parlando «del rischio di cedimento della diga e delle più ampie esigenze di tutela ambientale e di incolumità pubblica».

Per la Forest, che aveva già cominciato a tagliare teste al proprio interno? Un sicuro disastro: già nel 2012, a fronte di profitti per 1,65 miliardi registrati nel 2008, aveva annunciato ai propri investitori, perdite per 35 milioni di dollari causate da questa storia. Per Bomba? Una festa. «Ci siamo riappropriati del nostro futuro», conclude Massimo Colonna.