In un breve frammento contenuto nel suo Brogliaccio del 1950, Raffaele Carrieri dedica qualche riga a Lucio Fontana: «Lo vediamo partire come un minatore e tornare con un quarzo a forma di medusa. Se ne va col suo passo di bracciante a costruire fregi intorno ai vulcani. Le sue idee sono semplici e sproporzionate. È il cavamonte della scultura italiana». Col suo tipico stile funambolico, lo scrittore d’arte pugliese, firma di «Epoca», aveva felicemente tracciato il profilo mutevole dell’amico artista, in quella stagione ancora famoso come scultore sebbene la pittura stesse diventando la sua attività prevalente, artefice magico capace di tradurre in forma visioni geologiche con inaspettati guizzi d’invenzione.
È questo, in poche righe, il Fontana di Carlo Cardazzo (1908-1963), con cui nascerà un sodalizio decennale lungo una stagione cruciale per l’artista, che si chiude simbolicamente con l’invito per una sala personale alla Biennale di Venezia del 1958. Ne dà conto Lucio Fontana e gli Spaziali Fonti e documenti per le gallerie Cardazzo, edito da Marsilio, a cura di Luca Massimo Barbero (pp. 163, euro 20,00), esempio di un genere editoriale ancora inconsueto nelle abitudini critiche del Contemporaneo: un repertorio ordinato di fonti, circoscritto entro un contesto ragionevolmente controllabile, che dà conto nel vivo dei documenti a stampa di cosa si sia detto in presa diretta intorno a un singolo artista e al movimento sorto intorno a lui, solida base d’appoggio per futuri ragionamenti intorno alle vicende esterne di cui le opere sono state protagoniste.
Un libro del genere si può leggere in più modi: seguendo la fortuna dei singoli artisti nelle sezioni monografiche entro cui i testi sono rubricati; recuperando, con qualche fatica in più, una cronologia degli eventi, in moso da fare emergere l’intreccio di storie e ragionamenti che passano per ricaduta dalle pagine di sguardo generale sul movimento a quelle specifiche sui protagonisti (o viceversa); abbozzando la fisionomia dei vari critici, specie quelli le cui tracce solo altrimenti inafferrabili. Si potranno ritrovare, per esempio, molti scritti di Carrieri su Fontana (contraltare a quelli su Franco Gentilini), quasi tutti occasionati dalla cronaca delle mostre organizzate a Milano.
Resta tuttavia difficile stabilire le parti del dare e avere fra Fontana e Cardazzo, legati da un rapporto di stima ma mai da un contratto. Si conoscono di persona nel 1947 a Milano, dove sono entrambi approdati da poco: l’artista era appena tornato dall’Argentina portando sotto braccio il Manifiesto Blanco; il mercante aveva lasciato la natìa Venezia, dove aveva fondato la Galleria del Cavallino nel 1942, aprendo in via Manzoni, nel 1946, quella del Naviglio. È allora che nasce l’idea di fondare un gruppo, facendo di Fontana la calamita per le esperienze più varie.
L’unione fa la forza, sia sulla scena artistica sia sul mercato, e al contempo è nell’indole dell’italo-argentino sostenere i giovani artisti, Spaziali e non. Poco importa se i contorni del movimento sfuggono e se nei suoi pochi anni di vita la compagine muterà più volte, fra entrate e uscite (persino il momentaneo arruolamento di Matta e Burri nell’arco di una sola mostra), fino al canone stabilito nel 1956 da Giampiero Giani in un libro ricapitolativo: oltre a Fontana, sfilano in ordine alfabetico i protagonisti del gruppo milanese e di quello parallelo veneziano (inizialmente posto sotto l’ala di Virgilio Guidi), da Mario Deluigi a Roberto Crippa, persino Ettore Sottsass. Non c’era già più Gianni Dova – firmatario del secondo «manifesto» del 1948 –, ma si stabilizzeranno due artisti di punta della galleria come Scanavino e Capogrossi. Eppure, fra le didascalie delle opere, si annunciava un costituendo museo dello Spazialismo.
Cardazzo è una spalla affidabile e un regista abilissimo, che sa gestire con intelligenza i meccanismi della comunicazione a stampa e non solo, perfettamente cosciente delle regole del gioco. Non a caso sarà proprio lui, nel 1949, a ospitare il cruciale Ambiente a luce nera – primo e precoce ambiente immersivo – e a far girare contestualmente i primi estratti in traduzione italiana del Manifiesto, la cui ricezione andrà meglio compresa con strumenti filologici. «Per poter manifestare le proprie idee», scrive Barbero, «Fontana sa di dover suscitare particolare attenzione, ottenere, anche a costo di polemiche, una nuova visibilità e soprattutto rendere evidenti gli enunciati ancora troppo astratti o filosofici per il pubblico dell’arte dei manifesti spaziali».
Eppure, fra le trame della dinamica di gruppo, si percorrono sottotraccia numerose storie: oltre il «fideismo tecnologico», più volte sottolineato nell’introduzione al volume, che fa del movimento un «grande contenitore di idee», affiora costante l’esigenza di affermare una collocazione precisa del gruppo nello scacchiere nazionale. Se ne fa carico Beniamino Joppolo, spazialista della prima ora, alla mostra di Arte spaziale al Naviglio nel 1952: una via intermedia capace di superare le secche di una fittizia contrapposizione fra arte figurativa e arte astratta ma, al contrario del disimpegno degli «astratto-concreti» di Lionello Venturi, compromessa con la contingenza e con le inquietudini del presente. Cardazzo stesso, nell’occasione, chiosava silenziosamente in calce a un fotomontaggio di gruppo l’intenzione di dimostrare «come lo spazialismo è anche e soprattutto un problema di contenuto che può essere realizzato con qualunque mezzo, anche il più antico». Era ancora troppo presto per imboccare la via autre segnata da Michel Tapié (la via di Parigi, per Cardazzo, resterà quella di Gualtieri di San Lazzaro), e bisognava distinguersi almeno come linea teorica dal coevo gruppo di artisti Nucleari creato da Enrico Baj e Sergio Dangelo. Ma questo non toccava Fontana, firmatario dei Manifesti Spaziali ma nume tutelare della rivista «Il Gesto».
Entrambe le parti, in fondo, cercavano una via di distinzione entro la costellazione nebulosa dell’Informale, da cui presto cercheranno di uscire, almeno alcuni, sposando in vario modo le istanze di Nuova Figurazione. Lo si avverte nelle battute finali del libro, quando fa capolino la penna di Emilio Tadini alle prese con Peverelli (1957) e Dova (1961). Eppure su tutti aleggiava la stessa inquietudine, a cui Cardazzo dedica persino una mostra nel 1952, sotto forma di un premio sovvenzionato dall’imprenditore Vincenzo Gianni: sebbene Fontana nel 1949 per Carrieri avesse «toccato la luna», incombeva come una premonizione la minaccia della bomba atomica.