Erano le 6 di sera di giovedì, ora locale, quando a Kulp l’esplosione di un ordigno improvvisato ha investito un furgoncino con a bordo un gruppo di 20 lavoratori. Ne sono morti sette. Stavano andando a raccogliere legna nella cittadina del distretto di Diyarbakir, sud est turco. Altri 13 sono rimasti feriti, fa sapere il ministro degli interni Soylu.

A stretto giro la stampa filo-governative e il governatorato di Diyarbakir hanno indicato il responsabile nel Pkk, il Partito curdo dei lavoratori, sebbene dall’organizzazione non sia giunta alcuna rivendicazione. Tanto è bastato alle autorità centrali per colpire nel mucchio.

I primi arrestati in relazione all’attacco dinamitardo sono stati tre esponenti locali dell’Hdp, il Partito democratico dei popoli, fazione di sinistra filo-curda semi-svuotata in questi anni dalla brutale campagna epurativa guidata dal presidente Erdogan. Agli arresti sono finiti il co-sindaco di Kulp, Mehmet Fatih Tas, il co-presidente del distretto di Kulp, Abidin Karaman, e il direttore comunale per gli affari civili, Sener Aktas.

Da parte sua l’Hdp ha condannato l’attacco «nel modo più grave», si legge nella dichiarazione dei due co-presidenti, Sezai Temelli e Pervin Buldan. Solo nelle ultime settimane l’Hdp si è visto commissariare altri tre comuni (dopo il centinaio di amministratori locali sospesi e sostituiti dal governo tra il 2015 e il 2016), Mardin, Van e lo stesso Diyarbakir.

La rabbia per l’ennesimo abuso ad appena cinque mesi dalle amministrative del 31 marzo non scema: ieri per il 26esimo giorno a Mardin cittadini e sostenitori dell’Hdp hanno manifestato contro il commissariamento. La «veglia democratica», che continua a sfidare il divieto a manifestare imposto su tutta la provincia, si è tenuta ieri di fronte al quartier generale dell’Hdp, con i manifestanti circondati da veicoli blindati, cannoni ad acqua e poliziotti.

Ma quei commissariamenti non hanno alimentato tensioni solo tra Hdp e Akp, il partito di governo del presidente. Quelle sono scontate vista la pervasiva e onnipresente repressione istituzionale della più strutturata opposizione di sinistra.

La sostituzione dei sindaci ha provocato le proteste del Partito repubblicano, il Chp, non proprio un campione di diritti curdi ma da qualche anno talmente in opposizione ad Erdogan da prendere altre posizioni.

Ma soprattutto ha generato mal di pancia dentro lo stesso Akp, almeno nella corrente che aveva come riferimento l’ex primo ministro Davutoglu. Licenziato da Erdogan nel 2016 proprio per la sua contrarietà alla cancellazione dell’immunità parlamentare (chiaramente volta, come poi si è visto, a colpire i deputati Hdp) e sostituito dal fedelissimo Yildirim, ha da ultimo criticato il commissariamento dei tre comuni ed è stato “avviato” alle dimissioni da un richiamo disciplinare dell’Akp (primo passo verso l’espulsione), appena dieci giorni fa insieme ad altri tre colleghi di partito, tutti accusati di insulti alla fazione.

Ieri Davutoglu ha parlato, prima per rassegnare le dimissioni senza dare la soddisfazione a Erdogan di completare il processo ufficiale di espulsione e poi per annunciare il lancio di un nuovo movimento politico, probabilmente entro novembre.

L’ultimo di una serie di defezioni che di certo non fa piacere all’accentratore Erdogan. Già impegnato a ripulire lo spettro politico e civile di oppositori e rivali, ora se li ritrova anche in seno. Da cui la lista di dimissioni/licenziamenti che si allunga: tra gli altri l’ex ministro dell’Economia, Ali Babacan, fuoriuscito dal governo nel 2015 e a luglio dall’Akp e anche lui pronto a lanciare un partito tutto suo.