Quando, il primo gennaio, Bolsonaro assumerà la presidenza, lo farà con le mani sporche di sangue. Perché, come denunciano esponenti politici e rappresentanti dei movimenti, l’assassinio dei militanti del Movimento dei Senza terra José Bernardo da Silva e Rodrigo Celestino – uccisi l’8 dicembre nell’accampamento Dom José Maria Pires, in Paraíba – non è altro che il frutto del clima di odio e di violenza promosso da Bolsonaro. Il primo risultato della sua dichiarazione di guerra ai movimenti, con l’impegno a inquadrare le occupazioni dei senza terra e dei senza tetto tra le forme di terrorismo e a chiudere le scuole del Mst in quanto «fabbriche di guerriglieri».

«SE VOGLIONO restare qui – dichiarava l’ex capitano poco prima del voto – dovranno porsi sotto la legge di tutti noi. Oppure andranno in esilio o in galera». E ancora: «Non diffonderete più il terrore nei campi o nelle città. O vi sottometterete alle leggi o andrete a far compagnia all’ubriacone là a Curitiba». E soprattutto: «A quanti mi chiedono se voglio che vengano uccisi questi banditi del Mst, io rispondo che, sì, lo voglio». E lo hanno subito preso in parola, sabato scorso, i quattro uomini armati e incappucciati che hanno invaso l’area dell’accampamento di Alhandra – un’area totalmente improduttiva occupata dal Mst nel giugno del 2017 – sparando ai due coordinatori mentre stavano cenando.

Non che la violenza contro i senza terra sia un fenomeno nuovo, in Brasile. Dal 1985, sono state 1.904 le vittime della lotta per la terra. E solo in 113 casi gli assassini sono stati processati. Ma, con Bolsonaro al potere, la violenza contro i leader sociali rischia di esplodere, esacerbata – denunciano i militanti del Mst – «dallo scenario politico che il paese sta vivendo, nel segno dell’immaginario neofascista e della criminalizzazione dei movimenti popolari».

LA LOTTA, tuttavia, non si ferma. Né potrebbe essere altrimenti, considerando l’intera storia del movimento, con le sue occupazioni e le sue marce e con la sua indomita capacità di resistere alla repressione, ai massacri, alle campagne di diffamazione. «In questi tempi di angoscia e di incertezza – afferma in una nota la Direzione del Mst di Paraíba – non possiamo lasciare che il nostro destino sia deciso da chi detiene il potere politico ed economico. Riaffermiamo pertanto la centralità della lotta in difesa della terra per garantire dignità alla classe lavoratrice».

UNA LOTTA che, neanche una settimana prima, aveva riportato una piccola ma importante vittoria: la sospensione dell’ordine di sgombero dello storico accampamento Quilombo Campo Grande, nel sud di Minas Gerais, dove 450 famiglie hanno dato vita, seguendo i principi dell’agroecologia e senza alcun appoggio da parte del potere pubblico, a una delle maggiori cooperative di caffè dello stato, la Guaií.
Una vittoria che era stata salutata dal movimento come una dimostrazione della «legittimità» del suo «progetto di riforma agraria popolare». E la prova di come, anche ai tempi di Bolsonaro, la resistenza sia possibile.