Nel momento in cui operatori e assistenti sociali, educatori, addetti ai lavori e comuni cittadini si sono riuniti nel gruppo di lavoro «welfare» di Coalizione Civica, la lista che ha chiamato a raccolta donne e uomini di sinistra per eleggere un nuovo sindaco a Bologna, è parso evidente che uno degli obbiettivi primari sarebbe stato quello di provare a capovolgere la percezione che oggi ne hanno i cittadini.

Troppi anni di esclusiva celebrazione neoliberista da parte delle giunte a guida Pd hanno consolidato nell’opinione pubblica l’idea del welfare come vulnus parassitario, buco nero che sottrae continuamente risorse allo sviluppo dei territori. Nell’ultimo decennio anche a Bologna si è imposta quella logica individualista e atomizzante che ha portato ad una profonda rottura del rapporto fiduciario tra istituzioni e cittadino, convertendo intere famiglie al welfare fai da te, pensiamo ad esempio al badantato. L’equazione «lo stato non ha più soldi, per cui devo accollarmi io l’onere del bisogno assistenziale familiare» non regge più. Nel momento in cui il risparmio privato, sacro magazzino di benessere delle famiglie italiane, è ai minimi storici, la privatizzazione del rischio non fa che accentuare il senso di solitudine e di angoscia delle famiglie.

Il tema dei beni condivisi è centrale per una riorganizzazione della città. La riqualificazione degli spazi abbandonati e la loro trasformazione in contesti comunitari permanenti dovrebbe essere, ad esempio, tra le priorità di un’amministrazione che si proclama progressista. La città ne è piena e le istituzioni se ne accorgono solo quando altri ne prendono possesso, le risanano e ci creano all’interno pratiche di cittadinanza attiva. Queste esperienze hanno generato in alcuni casi delle vere e proprie sperimentazione di welfare dal basso, non di rado con il convinto consenso dei cittadini del territorio che avvertono il potenziale di sicurezza sociale che quelle esperienze portano con sé.

Nei giorni scorsi a Bologna c’è stato l’ennesimo sgombero di uno stabile occupato da persone altrimenti senza dimora. Tutto si è svolto secondo una procedura diventata ormai liturgia: imponente schieramento di polizia alle prime luci dell’alba, qualche contatto violento in strada con occupanti e attivisti, la resistenza di un piccolo gruppo di occupanti sul tetto. Immagini già viste che non scomodano più neanche le telecamere. Il Comune ha motivato il rifiuto ad aprire una trattativa con gli occupanti con l’assenza di minori, ma interrogarsi se sia giusto o sbagliato attivare interventi straordinari per accogliere gli sgomberati non aiuta a cogliere la natura e le proporzioni del problema.

Sarebbe più utile invece allargare l’inquadratura, nello spazio e nel tempo. Si riuscirebbe così a vedere che negli ultimi due anni almeno dieci grandi stabili e una decina di appartamenti di edilizia pubblica sono stati occupati a scopo abitativo dai movimenti di lotta per la casa. Non dimentichiamo poi il disagio estremo dei senza dimora «tradizionali», quelli che abitano rifugi di fortuna, binari morti alla stazione, portici del centro storico, dormitori pubblici. Infine, ci sono gli sfratti per morosità incolpevole che nel 2015, così come nell’anno precedente, sono stati circa 1400. Sotto le Due Torri il mercato immobiliare, fortemente dopato dalla presenza massiccia di studenti fuorisede, ha da sempre tiranneggiato la domanda di casa da parte delle fasce più deboli: prima i lavoratori meridionali ora i migranti con le loro famiglie.

La risposta pubblica alle storture del settore immobiliare privato è stata balbettante. Il 2014 si è chiuso con 6347 persone in lista d’attesa per un appartamento Acer (Azienda Casa Emilia Romagna) e 224 alloggi inutilizzati. L’amministrazione comunale, su iniziativa degli assessorati alle Politiche Sociali e a quelle Abitative, ha siglato con la prefettura un «Protocollo di garanzia» in cui si chiedeva a soggetti pubblici o privati di mettere a disposizione eventuali proprietà vuote e inutilizzate da tempo. Una cessione temporanea con garanzie da parte delle istituzioni su tempi di restituzione, manutenzione e forme possibili di detassazione. Fatta eccezione per un ex residence di proprietà Inail dove hanno trovato posto le famiglie sgomberate dall’ex Telecom, il protocollo non ha dato alcun risultato. Una sconfitta politica per la componente dell’amministrazione più attenta al sociale, quella che aveva provato ad assumere un atteggiamento dialogante con gli occupanti e che il Pd cittadino, dentro e fuori la giunta, ha avversato per l’intero mandato della giunta Merola.

Chi si candida a governare la città deve chiudere questa stagione fallimentare del welfare bolognese attraverso un radicale processo di modifica dell’organizzazione dei servizi che restituisca centralità al lavoro di progettazione, prevenzione, promozione del benessere di utenti e operatori.

* Coalizione Civica Bologna