Ci sono giornate che hanno un valore simbolico alto, che meritano di essere ricordate a lungo. Quella di ieri, 21 marzo, è una di queste. Il motivo è il filo invisibile che ha legato tra loro le piazze gremite di Napoli e Bologna. Il filo è quello di una Chiesa ansiosa di rinnovare la sua missione, preoccupata in primo luogo di ottenere giustizia, tutelare diritti, lottare per i poveri.

A Bologna, Libera ha celebrato la «giornata contro le Mafie». Il suo fondatore, Don Ciotti, ha ripetuto, con quel consueto, candido e meraviglioso vigore della parola che è in lui già traccia visibile di una grande forza morale, il messaggio di sempre: di fronte a duecentomila persone accorse da tutta Italia, ha fatto notare con quanta velocità sia stata fatta approvare dal governo Renzi la legge sulla responsabilità civile dei magistrati e poi ha chiesto di scrivere leggi più «determinate» contro la corruzione, di chiudere le porte alla mafia, ma anche di introdurre il reddito di cittadinanza e di cancellare il vitalizio ai parlamentari condannati in via definitiva per mafia e corruzione.

Nelle stesse ore, nelle piazze di Napoli echeggiava, nel discorso del Papa, lo stesso identico messaggio: ha detto, il papa, che la corruzione «puzza», ha chiesto di non considerare i migranti cittadini di seconda classe e poi che la mancanza di lavoro «ci ruba la dignità».

Francesco ha, con quel linguaggio semplice, diretto e profetico che è una delle ragioni della sua immensa popolarità, raccontato la storia di una ragazza costretta a lavorare in nero 11 ore al giorno per 600 euro al mese. Schiavitù l’ha definita il papa, e ha ammonito tutti a non considerare cristiano quel datore di lavoro. Anche se pretendesse di essere tale. Anche, aggiungiamo noi, se fosse «in regola» con tutti i sacramenti, con tutti i certificati prodotti nel tempo dalla Chiesa. Resterebbe anche in quel caso un non cristiano.

Corruzione nella politica, ma anche corruzione nell’impresa, degrado sociale, abiezione morale, schiavismo, sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nessuna legalità è davvero possibile se non c’è anche giustizia, se non c’è equità, se non c’è rispetto della dignità degli ultimi. Questo il senso del messaggio che proviene dalle parole di ieri di due preti decisamente fuori dal comune come Don Ciotti e Papa Francesco.

Luigi Ciotti le pronuncia da sempre parole come quelle, ma mai come prima il fondatore del Gruppo Abele si è trovato in una sintonia così perfetta con un capo della Chiesa. Ciotti è da tanto tempo una figura straordinaria del mondo cattolico, ma è anche sempre stato considerato decisamente eccentrico e marginale rispetto all’asse dominante nell’organizzazione. Si diceva in molti ambienti cattolici: «sì certo è un prete, ma un prete tutto singolare, addirittura un po’ strano, che non parla mai di chiesa e che è invece è ossessionato dai temi sociali, dai problemi dell’integrazione sociale dei tossici, degli sbandati, dei migranti. Per non parlare poi di quella stravagante sua passione per l’antimafia!».

Oggi invece, nel pontificato di Francesco che ha messo al centro proprio quei temi, Don Ciotti ci appare come il campione di un cattolicesimo civile e venuto a patti con la modernità, capace di usare la fede, senza bisogno di proclamarla mai, non per brandire croci o emettere divieti morali, non per rivendicare appartenenze ed esclusioni, ma per farne il sale della terra, per parlare a tutti di un messaggio universale di giustizia, un messaggio che sottolinea gli aspetti eversivi (rispetto al conformismo borghese) e forse utopici del Vangelo, la possibilità che esso divenga promotore del cambiamento sociale, della libertà e dell’equità tra gli esseri umani. La piazza di Libera era strapiena di laici ai quali nessuno ha chiesto di abiurare le proprie convinzioni religiose, ai quali nessuno ha chiesto di convertirsi, di annullare le salutari differenze di pensiero, di farsi corpo sociale omogeneo e compatto.

Il cattolicesimo discreto e implicito di Ciotti avanza e conquista il centro proprio mentre quello, urlato e imperialista di Lupi viene spinto ai margini. Per quasi quarant’anni, lungo tutti i pontificati di Giovanni Paolo e di Benedetto, è stato quello di Lupi e dei suoi amici il cattolicesimo più ortodosso, quello più allineato. Quel cattolicesimo che rispondeva puntuale alle chiamate alle armi del cardinali Ruini, che occupava all’istante i posti di responsabilità e di potere disponibili mettendoci sopra l’etichetta di «cattolico». E che però dei «valori del 21 marzo» ha fatto carta straccia. Finendo per rovinare sotto il peso del proprio cinismo.