Più cresce la resistenza al golpe – con manifestazioni e blocchi stradali in diverse aree della Bolivia – più il governo de facto mostra il suo volto repressivo. E mentre è salito a nove morti il bilancio del massacro di Sacaba, vicino a Cochabamba, dove polizia e militari hanno sparato colpi di arma da fuoco contro una pacifica manifestazione dei cocaleros, il ministro dell’Interno Arturo Murillo ha pensato bene di dare la colpa ai manifestanti stessi, che, a suo dire, si sarebbero ammazzati tra loro per poi far ricadere la colpa sulle forze di sicurezza.

 

 

«C’è dietro a tutto questo una mente macabra e sappiamo chi è», ha dichiarato il ministro riferendosi a Evo Morales e assicurando comunque che il governo si farà generosamente carico delle spese dei feriti, malgrado siano stati loro, ha detto, ad aggredire militari e poliziotti.

DICHIARAZIONI che di certo non contribuiscono ad abbassare il livello di tensione, salito nuovamente sabato scorso proprio a Sacaba, dove 15mila produttori di coca delle sei federazioni del Trópico de Cochabamba sono tornati a manifestare per rendere omaggio ai caduti e sono stati nuovamente colpiti dalla repressione delle forze dell’ordine. E lo stesso è avvenuto domenica a Villa Pagador, a Cochabamba, e a El Alto, dove un giovane che filmava un video è stato colpito da un proiettile. È stato del resto lo stesso governo de facto a dare alle forze di sicurezza la licenza per uccidere, autorizzando l’uso di armi da fuoco e garantendo totale impunità: «Il personale delle forze armate che partecipi a operazioni per ristabilire l’ordine è esente da ogni responsabilità penale qualora, nel compimento delle sue funzioni costituzionali, agisca per legittima difesa o in stato di necessità», recita il decreto emesso venerdì dal governo Añez, su cui è già arrivata la piena condanna della Commissione interamericana dei diritti umani e contro cui il Movimiento al Socialismo ha presentato ricorso presso il Tribunale costituzionale. «Sono in corso dei negoziati. Perché non puntare sul dialogo anziché realizzare massacri?», hanno protestato i parlamentari del Mas, denunciando al tempo stesso le minacce e le intimidazioni da parte di Murillo, il quale ha annunciato di avere già pronte liste di dirigenti del partito da arrestare per sedizione.

ED È PROPRIO IN MEZZO a repressione e minacce che va avanti, con molta fatica, il dialogo tra il governo e il Mas, con la mediazione della Conferenza episcopale – da sempre piuttosto ostile a Morales – e delle Nazioni unite, attraverso l’inviato Jean Arnault. E intanto, dal Messico, Morales torna a puntare il dito contro l’ambasciata degli Stati uniti come vero attore del colpo di stato, denunciandone l’intenzione di impossessarsi del litio – cruciale per la realizzazione delle batterie ricaricabili – di cui la Bolivia afferma di possedere il 70% delle riserve mondiali, concentrate soprattutto nell’enorme deserto di sale di Salar de Uyuni, che si estende per oltre 10mila chilometri quadrati.

MA SE L’OBIETTIVO del governo di «iniziare a sviluppare un’industria del litio» (pare con l’ausilio di capitali cinesi, dopo l’annullamento dell’accordo con l’industria tedesca Aci Systems in seguito alle proteste dei residenti) risultava senz’altro sgradito alle principali compagnie minerarie transnazionali, l’estrazione del cosiddetto “oro bianco” non piaceva neppure alle organizzazioni ambientaliste, a causa del suo impatto devastante sulla più grande distesa salata del pianeta, un’area di bellezza incontaminata che costituisce anche una delle principali attrazioni turistiche del paese.