Cos’è il suono delle Ande per noi figli dell’Occidente? Se, a metà degli anni ’70 del secolo scorso si identificava con gli spartiti degli Inti Illimani contro la dittatura di Augusto Pinochet, negli anni a seguire si è svuotato di ogni valenza ed è divenuto soltanto commercio di strada. Chi di noi, all’uscita di una fermata della metro, oppure su una piazza, non è incappato in un’orchestrina di charango, percussioni e flauti di Pan che riproponeva El condor pasa o El pueblo unido jamàs serà vencido?

Seconda domanda: cosa sappiamo noi della musica andina, di ciò che cori, danze, feste implicano ed esprimono? Nulla, al di là della sua riconoscibilità. Con questa precisa coscienza va visitata la mostra, un centinaio di immagini in bianco e nero da negativo in pellicola, Bolivia, I luoghi della musica, del fotografo canadese Craig Richards (Museo della Montagna di Torino, fino al 28 febbraio, info 011/6604104, catalogo 15 euro). Craig ha percorso i territori boliviani nel corso di due missioni di ricerca, documentando il carnevale di Ouro e vari carnevali rurali, la Ichapekene Piesta di San Ignacio de Moxos e la Festa della Vírgen María de Urkupiña a Quillacollo: folle strette intorno a coreografie antiche, balli dai ritmi ipnotici, pelli di tamburi che vibrano come gong e strumenti a fiato che scaricano la loro voce nell’aria tagliente delle montagne. In parallelo, la macchina fotografica è andate a cercare i volti di uomini, donne e bambini che, pur consapevoli di essere oggetto e soggetto, mai cedono al mettersi in posa la loro spontaneità.

E ancora, Craig ha depositato sul negativo la bottega di un liutaio di paese, la dolcezza di Samuel Mendoza nell’accarezzare la sua chitarra; i due suonatori di erke, lunghissime trombe cilindriche, in piedi, simili a soldati, davanti all’ingresso della scuola di musica di Tarija; José Jorge Pareja con il suo charango ed Eduardo Castro Chavez con il suo siku jula julaso, il flauto di Pan, seduti all’interno di una casa.

Facce scolpite dal vento, mani di contadini che coltivano anche i campi di note. Nella prefazione del catalogo, un passo di Febo Guzzi ben sintetizza le linee guida sulle quali il reportage ha trovato le sue fondamenta «Non è possibile affrontare qualunque questione relativa alle differenze culturali in seno al popolo boliviano e alle specificità che la musica, la danza e lo spirito festivo rivestono, senza incappare in questioni tra loro strettamente intrecciate, che riguardano il territorio e il clima, la collocazione nella scala sociale, la vera o presenta discendenza dai nativi e dai conquistadores o la diversa graduazione nella «miscela» delle componenti meticce». Questo, tutto questo, sottendono le fotografie. Richard si affaccia attento sulle scenografie della natura, spezzando volutamente, in ogni sezione della mostra, quelle dei paesi e delle strade in festa; racconta la geometria ghiacciata del Salar de Uyuni, l’orizzonte interminabile di Tiahuanaco, i fantasmi rocciosi di Valles de Roca e le falese di Potosi, il fiume e la foresta di San Javer.

Differenze e contrasti netti, gli stessi che noi occidentali, spettatori di una processione o di una danza, non arriviamo a cogliere e dissolviamo in un’inevitabile generalizzazione. Uno scatto ritrae il presidente Evo Morales mentre balla con una donna. Meticcia o india, nata a Potosi o a Oruro, donna delle campagne o della città? Per Morales e la Bolivia, comunque e da sempre donna andina.