La prima tappa della carovana che chiude la campagna per le presidenziali è a sud di Moreno, nel conurbano della Provincia di Buenos Aires, dove la polvere delle strade sterrate viene bloccata dalle mascherine, ma entra negli occhi. Ci sono bambini scalzi che camminano tra cani senza guinzaglio e si fermano di fianco al campo da calcetto in cemento de «La Porteña», una scuola-calcio che funziona come mensa e spazio di aggregazione quotidiano per 160 ragazzi e ragazze del quartiere.

Le auto arrivano con le bandiere blu-bianco-nero del Movimiento al Socialismo (Mas) e gli altoparlanti che ripetono la formula presidenziale «Lucho e David» oltre a canti che alludono alla sconfitta degli avversari: «Añez ya fue, Mesa ya fue, si vos querés Camacho también».

L’ARGENTINA È CRUCIALE in queste elezioni, i boliviani residenti nel Paese rappresentano il 2,5% degli aventi diritto al voto, la metà del totale dei voti all’estero. Un numero in apparenza minore ma che sarà fondamentale domani, quando il Mas proverà a superare la soglia del 40% con un margine di almeno 10 punti sull’ex presidente Carlos Mesa, per vincere al primo turno.

I sondaggi indicano che il masismo è al comando ma, in caso di ballottaggio il 29 novembre, sarebbe nettamente sfavorito. Non va tuttavia sottovalutato il contesto in cui sono stati realizzati i sondaggi. Evo Morales e il suo vice Alvaro García Linera sono stati i principali esponenti politici a cercare esilio in Argentina dopo il golpe, ma anche altri dirigenti hanno chiesto asilo qui.

 

Orlando Pozo al mercato ortofrutticolo di Belen de Escobar

 

È il caso di Orlando Pozo e di altri sei dirigenti di Montero, provincia di Santa Cruz, arrivati in Argentina a inizio gennaio.

POZO, 28 ANNI, che oggi visita tre o quattro località della provincia ogni giorno, 363 giorni fa venne eletto senatore senza poter assumere la carica a causa del colpo di Stato del 10 novembre 2019. «Apparentemente non staremmo vincendo al primo turno, ma sappiamo che il Mas vincerà. Per questo abbiamo fatto visita alla collettività per dire loro che vadano a votare e che hanno un impegno con la Patria e con la democrazia», dice Pozo, che ha mosso i primi passi come dirigente della gioventù di Montero e che oggi ha un mandato di cattura a suo nome in Bolivia.

Humberto García, a soli 36 anni era dirigente degli “adulti” del Mas della località cruceña. Milita da quando aveva 14 anni ed è uno dei sei boliviani che hanno accompagnato Pozo in esilio. Parla dell’ambiguità che sente stando lontano dal proprio paese: «È una scuola perché continuo a imparare la solidarietà latinoamericana. E allo stesso tempo è triste perché lasci la tua famiglia, il tuo popolo, la tua cultura, il tuo cibo».

Sulle elezioni, Humberto crede che siano «per recuperare la democrazia» e così come ha appoggiato «le grandi trasformazioni avute con Evo Morales» crede che «morirà per questo strumento politico».

ALLA PRIMA SOSTA della carovana, al sud di Moreno, Serafina si avvicina lanciando coriandoli sulla testa dei militanti. Ha un «pezzettino di terra» da 5 anni, ma vive nel paese da 30: «Non ho mai subito una discriminazione. Mi sono ammalata di cancro e grazie ai medici di qui sto bene». Ma è cosciente di ciò che accade nel suo paese: «Da quando c’è la signora Añez c’è molta corruzione, a lei non importa della gente. Voglio che se ne vada e che vinca il nostro compagno Lucho».

«Ci sentiamo latinoamericani ed è ciò che riprendiamo dall’internazionalismo di Che Guevara», dice Pozo uscendo dal grande mercato di frutta e verdura di Escobar, l’ultima località bonaerense a cui farà visita prima delle elezioni e in cui si trova una delle comunità boliviane più grandi del paese.

I MILITANTI CAMMINANO tra i banchi del mercato e distribuiscono volantini e calendari. Un giovane grida in sottofondo «andate via». Dice che non cambierà niente nel suo paese, appoggiato con le braccia su una pila di cassette di arance. Aida lavorava in una fabbrica tessile che ha chiuso durante il governo Macri. Ha 47 anni e 5 figli, e da 25 vive in Argentina. Si è mobilitata contro il golpe ma si sente «impotente» di fronte alle morti dei suoi «paesani». Ripete che Añez è «autoproclamata e assassina», e cita il caso dei prezzi gonfiati nell’acquisto di respiratori, conclusosi con il licenziamento del ministro della Salute, uno dei 19 cambiati sotto il governo Añez.

Jesus ha 48 anni, è di Cochabamba, ascolta Pozo in una sosta della carovana e dice che sta lottando per «i morti di questi mesi» e la sovranità: «Più di 500 anni fa ci hanno portato via l’oro di Potosí, ora abbiamo una seconda opportunità con il litio: vogliamo che resti in Bolivia».

DURANTE I QUASI 50 KM di tragitto Orlando dimostra vicinanza e intimità, ricorda la sua infanzia in una famiglia contadina, quando aspettava l’unico momento dell’anno in cui riceveva un camioncino giocattolo; spiega con pazienza che «Jallalla» – la parola aymara che tutti gridano alla fine di un discorso – significa «viva!»; e assume una postura ferma quando prende la parola in pubblico: «Volete che la destra rimanga al governo?». E risponde: «Di tutti i fratelli che possono votare in questa località, al massimo possiamo permetterci che uno non vada. Perché loro ci mettono le pallottole e noi i voti».

traduzione e foto di Gianluigi Gurgigno