Con la firma dell’accordo per nuove elezioni in Bolivia, il governo de facto ha ottenuto quello che voleva: legittimare se stesso e convocare da una posizione di forza un nuovo processo elettorale senza la partecipazione di Evo Morales e Álvaro García Linera. Benché il Mas sia almeno riuscito a riprendere il controllo dell’Assemblea legislativa plurinazionale, la rinuncia a proseguire la lotta nelle strade fino a far cadere l’autoproclamata presidente non convince tutti all’interno della base sociale del Mas.

E, CON LA PERSECUZIONE IN ATTO dei dirigenti del partito, non mancano i dubbi neppure sull’«accordo di pacificazione» raggiunto con il governo de facto dai dirigenti delle organizzazioni del Pacto de unidad, la coalizione a sostegno di Morales. Che anche tra gli alleati dell’ex presidente sia mancata, fin dal’inizio, compattezza e decisione, sembra evidente già dal fatto che sia stato lo stesso leader della Central Obrera Boliviana Juan Carlos Huarachi a consigliare a Morales di dimettersi e che la Federación Sindical de Trabajadores Mineros de Bolivia abbia definito «inevitabile» la sua rinuncia («Applaudiamo la tua gestione, ma è finita»). Una questione sollevata anche dall’antropologa e militante femminista argentina (ma residente in Brasile) Rita Segato, secondo cui il Mas avrebbe avuto difficoltà a richiamare più gente per le strade a El Alto «non solo per la repressione», ma anche per i «dubbi sulla figura de Evo».

E NON DUBBI, MA VERE ACCUSE ha rivolto a Morales l’antropologa, a cominciare da quella di maschilismo, espresso in modo significativo dalla terribile frase sulla «quindicenne» che l’ex presidente si sarebbe portato con sé il giorno in cui avesse deciso di ritirarsi. Respingendo come una sorta di «ricatto» l’idea che questo non sarebbe il momento opportuno per le critiche, Segato non ha esitato, pur senza negare la realtà di «un atroce colpo di stato», a descrivere Morales come vittima del «generale discredito» suscitato da «varie delle sue azioni».

Una posizione, quella dell’antropologa, che ha suscitato enorme scalpore in Bolivia, evidenziando le divisioni esistenti anche tra le forze popolari, in particolare in ambito femminista. Contro il suo intervento si è subito pronunciato un gruppo di «donne dei territori ancestrali», che, accusandola di essere espressione di un «femminismo bianco», ha evidenziato, tra l’altro, come «per una donna indigena che vive il machismo e la violenza nella vita quotidiana non è la stessa cosa trovarsi di fronte a medici che violano i suoi diritti o di fronte a un servizio di salute laico e rispettoso della salute ancestrale».

E UN PROFONDO DISSENSO rispetto alla sua posizione, definita «accademica» e distante dalla lotta di strada è stato espresso anche dalle donne del Femminismo comunitario de Abya Yala, le quali hanno in particolare contestato il momento scelto dalla femminista argentina per rivolgere le sue critiche al «processo di cambiamento» avviato da Morales: «Ciò di cui abbiamo bisogno ora è che il mondo condanni il golpe fascista, i massacri, le persecuzioni e le violenze. In questo momento, quello che importa è la vita». E ciò benché, come ha spiegato una delle principali rappresentanti del femminismo comunitario, Adriana Guzmán, non siano di certo infondate le critiche al modello economico, all’estrattivismo e anche al machismo di Morales. Ma, precisa, avere un presidente in cui ha potuto rispecchiarsi la lotta delle organizzazioni sociali «non è la stessa cosa che avere un presidente bianco, imprenditore e oligarca come Macri».

Per questo «era importante che Evo fosse presidente», ha aggiunto, evidenziando come il golpe abbia voluto stroncare proprio questo processo di «trasformazione quotidiana», in maniera che il buen vivir, l’autodeterminazione, l’autogoverno indigeni non rappresentino più una possibilità.

NON SONO MANCATE però neppure reazioni di altro tipo, come quella espressa attraverso un comunicato «in appoggio a Rita Segato» firmato da un folto gruppo di femministe boliviane, a cominciare dalle più conosciute Silvia Rivera Cusicanqui e María Galindo, già autrice, quest’ultima, di un duro intervento sul «governo corrotto, ecocida, misogino e caudillista» dell’ex presidente.

L’idea che Morales «vada sostenuto acriticamente» – scrivono – non è l’«unica visione legittima da una prospettiva indigena»: «La condanna del golpe è collettiva e indiscutibile, ma ciò non vuol dire rinunciare alla critica dinanzi a un conflitto che va oltre il colpo di stato».