Non è bastata la vittoria nettissima riportata da Luis Arce alle elezioni del 18 ottobre, né il suo riconoscimento da parte sia del suo avversario Carlos Mesa che della presidente golpista Jeanine Áñez e neppure il giudizio unanime degli osservatori internazionali, compresi quelli dell’Osa, sulla regolarità del processo elettorale. Per l’estrema destra boliviana, semplicemente, il Movimiento al Socialismo non deve tornare al potere.

E così, dopo la prima giornata di blocchi stradali realizzati da organizzazioni intrinsecamente golpiste come il Comité Cívico Potosinista e quello di Santa Cruz per protestare contro inverosimili brogli elettorali, l’estrema destra ha persino giocato la carta di un attentato dinamitardo contro il presidente eletto, uscito fortunatamente illeso, mentre era impegnato in una riunione presso la sede del partito a La Paz.

«Questo è il clima che stiamo vivendo e speriamo che non si complichi», ha denunciato il portavoce del Mas Sebastián Michel, lamentando che il governo de facto non si sia pronunciato contro l’aggressione né abbia mostrato alcuna volontà di garantire la sicurezza di Arce.

Procedono intanto i preparativi per la cerimonia di insediamento di domenica presso la sede dell’Assemblea legislativa plurinazionale, preceduta ieri da una cerimonia indigena in cui Luis Arce e il suo vice David Choquehuanca hanno ricevuto l’investitura tra le rovine incaiche di Tiwanaku, secondo un rito, già realizzato in passato con Evo Morales, diretto a riaffermare l’identità indigena del Mas. E per oggi è atteso l’arrivo delle delegazioni ufficiali invitate a presenziare a uno spettacolo decisamente inedito: quello di un governo de facto costretto a restituire il potere a solo un anno dal golpe.

Ad assistere all’evento, che si aprirà con un’offerta alla Pachamama e si concluderà con una festa popolare, saranno, tra gli altri, il re di Spagna Felipe VI, il vicepresidente del governo spagnolo Pablo Iglesias, i presidenti Iván Duque, Sebastián Piñera, Mario Abdo e Alberto Fernández e quello iraniano Hassan Rohani. Non è stata invece ancora confermata la presenza di Nicolás Maduro, il quale ha ricevuto l’invito da Arce, ma non dal governo de facto, che invece ha provveduto a invitare l’autoproclamato Guaidó. Ad attendere il neo presidente dopo l’insediamento sarà poi un compito tutt’altro che agevole: quello di dar vita a un governo che sia distante dall’«evismo», risponda alle richieste della base sociale del Mas e sia all’altezza della sfida posta dalla crisi economica attraversata dal paese.

Le polemiche, al riguardo, non mancano: le organizzazioni sociali che sostengono il partito rivendicano per sé la maggior parte dei ministeri, opponendosi tassativamente a qualsivoglia presenza dell’entourage di Morales, cioè di tutto quel gruppo di intellettuali ed esponenti della classe media che hanno operato spesso e volentieri contro gli interessi dei settori indigeni e contadini, per poi darsi alla fuga dopo il golpe («si sono nascosti come topi», è stato il durissimo commento del presidente uscente della Camera dei deputati Sergio Choque).

«Hanno esaurito il loro ciclo e ora c’è bisogno di rinnovamento», ha rassicurato Arce. Ma dall’Argentina Morales, che rientrerà nel paese il giorno dopo l’insediamento, ha già avuto qualcosa da dire, auspicando al contrario un equilibrio tra fondatori del partito, ex ministri e volti nuovi:

«Credo che alcuni compagni sbaglino. Dicono no all’entourage di Evo, ma chi ne fa parte da più tempo sono proprio Arce e Choquehuanca. Ci sono alcuni problemi interni, un po’ di confusione. Voglio tornare per chiarire, per allineare».