Mentre in Italia è sufficiente pronunciare la parola «patrimoniale» per scatenare il panico, altri governi mostrano decisamente più coraggio.

Se un’imposta sulle grandi fortune era stata una delle promesse della campagna elettorale del Movimiento al socialismo, il governo di Luis Arce a un mese dal suo insediamento ha mantenuto prontamente la parola. Il 10 dicembre la Camera dei deputati ha votato a favore di una tassa annuale e permanente sui patrimoni superiori ai 4,3 milioni di dollari, tanto di cittadini boliviani che di stranieri con una permanenza nel paese di oltre 183 giorni.

IL PROVVEDIMENTO, che attende solo la scontata ratifica da parte del Senato, prevede un’aliquota progressiva dell’1,4, 1,9 e 2,4% secondo l’ammontare del patrimonio, fruttando alle casse dello stato non meno di 230 milioni di dollari, da destinare «esclusivamente a spese sociali».

Soddisfazione è stata espressa dal presidente Arce, convinto che l’imposta (insieme al rimborso del 5% di tutte le spese fatturate per le persone con redditi inferiori a 9mila bolivianos, circa 1.065 euro) contribuirà a «riattivare l’economia».

Ma, come c’era da attendersi, la patrimoniale non è stata affatto ben accolta dall’oligarchia, secondo cui pregiudicherebbe gli investimenti, la proprietà privata e la sicurezza giuridica. «È un segnale preoccupante per gli investitori locali e stranieri», ha tuonato l’economista Gary Rodríguez, secondo cui la nuova imposta sembrerà diretta a «punire le persone di successo e a disincentivare la generazione di ricchezza» con ciò che questa comporta in termini di creazione di posti di lavoro e di innalzamento della «qualità della vita dei cittadini».

IL GOVERNO ARCE, tuttavia, non è stato l’unico a decidersi a questo passo. Un’imposta analoga, benché una tantum, è stata approvata anche in Argentina: il 4 dicembre il Senato ha convertito in legge, con 42 sì e 26 no, il progetto di un contributo «solidale e straordinario» a carico di detentori di patrimoni superiori a 200 milioni di pesos (oltre due milioni di euro).

Una tassa del 2% che crescerà progressivamente fino a un massimo del 3,5% per le fortune superiori a tre miliardi di pesos (30 milioni di euro) e da cui il governo spera di ottenere 300 miliardi di pesos (oltre tre miliardi di euro) da investire in progetti produttivi e sanitari. E anche in Argentina non sono mancate le proteste della destra che, definendo la tassa «un’imposizione, altro che contributo solidale», ha insistito sul fatto che «l’unica crescita genuina viene dagli investimenti, non dalle imposte».

È TUTTAVIA PROPRIO il modello di investimenti promosso in Argentina ad avere ben poco di genuino. Un modello centrato sul settore estrattivista portato avanti con convinzione anche dal governo Fernández, attraverso il sostegno a progetti di sfruttamento minerario come quello di estrazione di argento e piombo contro cui sta lottando da mesi la popolazione della provincia di Chubut.

O il sostegno a quell’altra forma non meno nociva di estrattivismo – inteso come accaparramento delle risorse presenti sui territori, a scapito delle comunità locali e degli ecosistemi in cui esse vivono – che è data dall’agribusiness, su cui il governo sta puntando per aumentare le esportazioni e così rimpinguare le esangui casse dello Stato, anche attraverso misure come il via libera al primo grano transgenico del mondo o l’incremento della produzione a larga scala di carne di maiale destinata alla Cina.

IL MODELLO ESTRATTIVISTA aveva finito per caratterizzare anche il governo di Evo Morales e a cui Arce, il suo ex ministro dell’Economia, potrebbe decidere di dare nuovo impulso. A meno che il suo vice David Choquehuanca, sostenitore della dottrina del bien vivir, riesca a porre un freno allo sfruttamento minerario e all’ampliamento della frontiera agricola a scapito della foresta.