Laura Boldrini cala la ghigliottina per un decreto-legge sul punto di decadere, Pietro Grasso decide di costituire il senato come parte civile nel processo per la compravendita dei senatori contro l’avviso del consiglio di presidenza. Boldrini sbaglia, Grasso coglie nel segno. La presidenza delle assemblee muta nel passaggio dal proporzionale al maggioritario e il connesso mantra della governabilità. Non è un caso che il 1994 ponga fine alla prassi di attribuire una presidenza all’opposizione.
Il presidente rimane garante delle regole, certo, ma tra queste entra una regola non scritta: il diritto della maggioranza a governare senza indebiti intralci. Inevitabilmente, a spese dell’opposizione.

Se ne trova l’eco nei discorsi di insediamento dei presidenti neo-eletti. Nelle parole di Violante (camera, 10 maggio 1996), di Pera (senato, 30 maggio 2001), di Marini (senato, 29 aprile 2006), di Schifani (senato, 29 aprile 2008) si trovano di volta in volta riferimenti alle prerogative della maggioranza, al suo diritto di governare e in specie di realizzare il programma, e persino alle esigenze del governo. L’opposizione ha il diritto di criticare, ma non di frapporre insuperabili ostacoli. Ed è su questa linea Boldrini quando afferma che la minoranza deve poter far valere i suoi diritti «ma non fino ad impedire a una maggioranza di esercitare le sue prerogative»(lettera a Repubblica, 6 febbraio 2014).

È una posizione fondata? Davvero spetta a un presidente di assemblea decidere che non è un diritto dell’opposizione far decadere un decreto, mentre è prerogativa della maggioranza evitare la decadenza? Lo stesso regolamento del senato, richiamato nel dibattito (art. 78, co. 5), prevede la chiusura forzosa dei lavori per il Ddl di conversione presentato in prima lettura al senato, al fine di contenere i tempi entro 30 giorni e lasciarne altri 30 alla camera prima della decadenza. Solo nella prassi, e con qualche forzatura, l’applicazione è stata estesa alla seconda lettura in vista della decadenza. Ma, soprattutto, il regolamento camera nulla dice.

Non si può ritenere sempre indispensabile un puntuale riscontro regolamentare. Mancandone uno, nel 1995 il ministro della giustizia Mancuso fu sfiduciato individualmente dal senato. Solo il regolamento della camera prevedeva la sfiducia individuale. Ma la decisione del senato trovò il suo vero fondamento non nell’analogia con il regolamento della camera, ma nella Costituzione e nel rapporto fiduciario. Si applicò quindi un istituto non previsto dal regolamento, ma desumibile in via ricostruttiva e sistematica dall’art. 94 della Costituzione.

Anche per Boldrini si può affermare che non sarebbe conclusivo il silenzio del regolamento, se ci fosse un fondamento costituzionale. Ma la premessa è che la ghigliottina indiscutibilmente comprime i diritti fondamentali di ogni parlamentare e delle opposizioni. Possiamo ritenere che la Costituzione riconosca a governo e maggioranza un diritto, prevalente su diritti altrui, a vedere il proprio decreto legge convertito? Certamente no, dal momento che la Costituzione stessa prevede la decadenza, e detta una disciplina per i rapporti eventualmente sorti. Ne deriva che la decadenza è elemento fisiologico nel modello costituzionale del decreto legge. La sorte del decreto è affidata alla dialettica parlamentare, ed è responsabilità della maggioranza perseguire con gli strumenti regolamentari la conversione.
Dunque, la decisione di Boldrini non si giustifica. Né soccorre l’argomento di aver voluto evitare il problema Imu a milioni di famiglie. Questo – con certezza – era compito non suo, ma della maggioranza e dell’esecutivo.

Veniamo a Grasso. La sua decisione, a tutela dell’istituzione e non legata alla dialettica maggioranza-opposizione, è giustificata sul piano processualpenalistico. Ma poteva decidere contro l’avviso del consiglio di presidenza? Vale l’art.12 del regolamento del senato, per cui il consiglio ha potestà su alcune questioni, per le quali sono usate le parole «delibera», «approva», «nomina». Per «tutte le altre questioni che ad esso siano deferite dal Presidente» – tra le quali appunto la costituzione di parte civile – viene usata la parola «esamina». Ne traiamo due conseguenze. La prima: che il presidente potrebbe (avrebbe potuto) decidere la costituzione di parte civile anche senza coinvolgere il consiglio. Coinvolgerlo non significa tramutare una decisione monocratica del presidente in deliberazione collegiale del consiglio. La seconda: il consiglio non approva né delibera, ma unicamente esamina se richiesto, e dunque al più svolge una funzione assimilabile a quella di esprimere un parere né obbligatorio né vincolante. Quindi, spetta comunque al presidente decidere. Al più, potrebbe dirsi che il Presidente, una volta chiamato il consiglio ad esaminare la questione, deve motivare una sua diversa decisione. Anche rilevante è la considerazione che il consiglio non riflette nella composizione gli orientamenti maggioritari, probabilmente nella specie favorevoli a Grasso.

Dunque, disco rosso a Boldrini, e verde a Grasso. Per entrambi vale la regola che le decisioni – giuste o sbagliate – dei presidenti sono inappellabili e vanno rispettate. È così per le assemblee elettive di un paese civile e democratico. Tale vorremmo che il nostro fosse ancora.