Dalla penna di Scalfari arriva la diffida ai presidenti delle Camere a dimettersi immediatamente. Nella sostanza, l’accusa è la mancanza di imparzialità. L’esperienza di Scalfari in Parlamento è lontana nel tempo. Ma il mondo cambia, e sarebbe strano che il cambiamento non toccasse la presidenza delle assemblee.

Consideriamo, ad esempio, i nomi dei presidenti della Camera dal 1994 a oggi. Sono nell’ordine: Pivetti, Violante, Casini, Bertinotti, Fini. In Senato troviamo Scognamiglio Casini, Mancino, Pera, Marini, Schifani.

È appunto con il 1994 che hanno fine le presidenze affidate a personalità dell’opposizione, come Iotti, Ingrao, Napolitano. Si avvia invece una fase in cui la presidenza è data a esponenti della maggioranza. In qualche caso a esponenti che sono anche leaders di componenti della stessa maggioranza, pienamente inseriti nella dialettica politica, di partito, di coalizione. Che poi formalmente mantengano la tessera o meno, si iscrivano al gruppo del partito di appartenenza o no, appare marginale. La stessa titolarità della carica diventa invece un elemento nella definizione della cifra politica della persona.

È un corollario della scelta maggioritaria fatta con il Mattarellum, e del progressivo affermarsi del mantra della governabilità e del diritto della maggioranza di governare senza indebiti intralci da parte dell’opposizione. Chi vince conquista il diritto a esercitare il comando fino al successivo turno elettorale. Il compito del presidente dell’assemblea è sì quello di garantire il rispetto delle regole, ma sempre considerando tale diritto. Mentre non è diritto dell’opposizione impedire alla maggioranza di governare.

Questa lettura pro-maggioranza della presidenza di assemblea trova esplicito riscontro nei discorsi di investitura. Violante (9 maggio 1996): «Nel lavoro quotidiano mi sforzerò di garantire tanto il diritto-dovere di governare, quanto quello di opporsi … c’è il rischio che il problema delle decisioni sia completamente trascurato, che il dibattito diventi fine a se stesso… troveremo il giusto equilibrio tra confronto delle idee e decisione politica, nella consapevolezza che un Parlamento che non riuscisse a decidere segnerebbe la propria sconfitta e quella della democrazia». Casini (31 maggio 2001): «C’è un diritto della maggioranza a governare. C’è un diritto dell’opposizione a controllare». Mentre Fini (30 aprile 2008) esplicitamente dà atto della collocazione politica sua e di altri presidenti: «Come i più recenti tra i miei predecessori, gli onorevoli Bertinotti, Casini e Violante, che saluto, sono anch’io un uomo di parte fortemente convinto della bontà dei valori che hanno ispirato il mio impegno politico».

Da oltre vent’anni, quindi, i presidenti non sono – sostanzialmente – super partes. Grasso e Boldrini non fanno eccezione. La Presidente della Camera, in una lettera a Repubblica il 6 febbraio 2014, prendendo spunto da una sua decisione che aveva suscitato polemiche, afferma che la minoranza deve poter far valere i suoi diritti «ma non fino ad impedire a una maggioranza di esercitare le sue prerogative». Dunque, la Boldrini del 2014 andava lodata, e la Boldrini di oggi invece va lapidata? Lo stesso vale per Grasso, che ammette per l’Italicum il maxi-canguro con l’emendamento Esposito che stronca l’ostruzionismo, che avrebbe potuto dichiarare inammissibile perché privo di contenuto normativo.

Sia Boldrini che Grasso non hanno opposto ostacoli alle famigerate questioni di fiducia che hanno condotto all’approvazione del Rosatellum 2.0. il peccato non è dunque in quel che hanno fatto in aula, ma in quel che hanno detto dopo, fuori dell’aula. In breve, nell’aver osato criticare. Presidenti espressione di maggioranza non hanno titolo a dissentire da chi ha deciso che ricoprissero la carica? Allineati e coperti, e mai disturbare il manovratore?

No, grazie. Non apparteniamo a quelli per cui la critica è sinonimo di animo debole, predisposto al male, foriero di peccati futuri. Né riteniamo che una critica possa mai di per sé recar danno all’immagine di un soggetto politico, in specie se preminente nelle istituzioni. Ancor meno se è tanto bravo a farsi male da solo.