Hanno il capo coperto dall’hijab, il tradizionale velo islamico e indossano tuniche lunghe fino ai piedi mentre, sedute sul terreno in un luogo non identificato, cantano e pregano Allah. L’espressione in volto è quella di chi, per paura e nella speranza di non essere ucciso, è costretto a obbedire. Appaiono così circa un centinaio di ragazze in un video di 17 minuti diffuso ieri da Boko Haram. Video con cui Abubakar Shekau, il leader del gruppo integralista islamico nigeriano, propone la liberazione delle adolescenti in cambio del rilascio di detenuti.

Se si considera che meno di una settimana fa gli stessi miliziani avevano minacciato di vendere al mercato come schiave le oltre 200 studentesse rapite a metà aprile durante un raid nella scuola superiore di Chibok, appare evidente come ora ci sia invece un margine di apertura a eventuali trattative di negoziazione. Vuoi sotto la pressione dell’opinione pubblica mondiale vuoi per l’intervento a tutto spiano delle intelligence globali, da quelle di Usa, Gran Bretagna e Francia fino a quelle di Cina e, recentemente annunciata, di Israele. Nella giornata di domenica era stato il governatore dello stato del Borno, Kashim Shettima, a dirsi convinto in un’intervista alla Bbc che le ragazze si trovassero ancora in Nigeria e a far sapere di aver informato l’esercito delle segnalazioni in possesso su un loro avvistamento.

Due giorni fa, dall’Eliseo è arrivata la proposta di un summit da tenersi sabato prossimo a Parigi e che vedrebbe la partecipazione dei leader di Nigeria, Niger, Ciad, Camerun, Benin e di rappresentanti di Usa, Gran Bretagna e Ue. Mentre al fianco delle forze di polizia locali e di due divisioni dell’esercito governativo, sta già operando su suolo nigeriano una task force internazionale di esperti dei servizi di sicurezza a cui ha offerto di aggiungersi anche un team di agenti di Israele, secondo quanto confermato dal Presidente della Nigeria Goodluck Jonathan che ha riferito di una telefonata con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

La mobilitazione delle amministrazioni e dell’intelligence di mezzo mondo è figlia della forte e pressante campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica globale, senza il cui intervento nessuna poltrona si sarebbe mai affannata a garantire o pubblicizzare interventi di alcun tipo a favore della liberazione delle studentesse di Chibok. O quantomeno, non per liberare queste bambine, simbolo di generazioni di adolescenti al cui diritto allo studio e ai cui sogni Boko Haram tenta quotidianamente di tarpare le ali. Un intervento in Nigeria contro Boko Haram, ci sarebbe prima o poi stato. Forse non così plateale e certo per ragioni diverse, rispetto alla liberazione delle ragazze diventata un’occasione, e non certo il motivo principale della odierna mobilitazione della task force internazionale di agenti e spie.

In azione, sotto lo scudo delle studentesse da salvare, a difesa di importanti interessi – dal greggio della Total, di Shell ed Eni, all’uranio di Areva – grazie ai quali queste stesse bambine hanno ereditato dalle loro madri la sofferenza di mangiare pane e petrolio da decenni ormai. Non è il primo rapimento di adolescenti ad opera di Boko Harama. Ma, sull’onda delle recenti proteste nigeriane per le strade di Chibok e davanti al parlamento di Abuja, contro un governo incapace di garantire risposte pronte e adeguate, è il primo sequestro che ha visto gli appelli così forti di personaggi internazionali e la mobilitazione sui social network delle comunità civili attraverso la campagna #BringBackOurGirls.

«Ho deciso di violare le restrizioni imposte dal mio lutto perché il silenzio non è un’opzione. So che Madiba comprenderà e approverà», ha scritto la vedova di Mandela, Graça Machel in una lettera apparsa sul Sunday Independent. E ha aggiunto, riferendosi al volo della Malaysia Airlines scomparso l’8 marzo scorso «se il mondo si mobilita per cercare un aereo scomparso con 239 passeggeri, può mobilitarsi anche per ritrovare le nostre ragazze».