A distanza di due anni mezzo dal sequestro di massa in una scuola del nord-est della Nigeria che ha scatenato indignazione e la campagna internazionale #BringBackOurGirls, giovedì scorso il governo nigeriano ha annunciato la liberazione di 21 studentesse. Il rilascio sarebbe avvenuto a seguito di trattative e in cambio della liberazione di alcuni militanti di Boko Haram: «È il risultato dei negoziati tra l’amministrazione e Boko Haram, con la mediazione della Croce Rossa Internazionale e del governo svizzero». «I negoziati continueranno», ha annunciato in su Twitter Mallah Garba Sheh, portavoce del presidente Muhammadu Buhari.

Il 14 aprile 2014, 276 studentesse furono rapite da Boko Haram dalla Government Girls Secondary School di Chibok. Di queste 57 riuscirono in seguito a fuggire, una, Amina Ali Darsha Nkeki, è stata ritrovata a maggio scorso nella foresta di Sambisa vicino al confine con il Camerun, le altre restano ancora nelle mani dei jihadisti. La scuola fu rasa al suolo durante il raid e non è stata più ricostruita. Trattative in corso erano state annunciate già a gennaio scorso, quando il governo si era detto pronto a negoziare con una «leadership credibile» di Boko Haram dopo che alcuni tentativi erano falliti per le divisioni interne al gruppo jihadista e nonostante la disponibilità del governo a uno scambio di prigionieri.

Si tratterebbe dei primi negoziati resi noti pubblicamente tra il governo della Nigeria e il gruppo terroristico di Boko Haram, nei confronti del quale ad agosto scorso, in margine a una conferenza sullo sviluppo africano tenutasi a Nairobi, Buhari si era detto disposto a un’apertura significativa e determinata in merito alle ragazze rapite: «Il governo che presiedo è disposto a negoziare con i leader di Boko Haram. Se loro non vogliono negoziare con noi direttamente, li lasceremo scegliere un’organizzazione non governativa riconosciuta a livello internazionale». Non solo, Boko Haram avrebbe potuto iniziare i negoziati sullo scambio di prigionieri fornendo la prova all’ong di avere ancora le ragazze.

Un’azione politica quella di Muhammadu Buhari in linea con le promesse fatte al momento del suo insediamento, e prima ancora, con quelle della campagna elettorale di sradicare i due maggiori mali che affliggono un colosso economico come la Nigeria (in recessione per la prima volta in più di 20 anni), vale a dire la corruzione endemica e Boko Haram.

Una dichiarazione di guerra, a ben vedere, la sua, su due fronti paralleli e altrettanto interconnessi – corruzione (di stato) e terrorismo – e dunque per certi versi controversa: perché se da un lato Boko Haram sfrutta il malcontento della popolazione facendo proseliti tra la popolazione insofferente alla corruzione dilagante tra gli apparati statali e militari e a tutto ciò che ne consegue, d’altro canto la connivenza di parte degli stessi apparati con i jihadisti ne alimenta infiltrazioni e potere.

La Nigeria è impegnata in un’offensiva militare contro Boko Haram sia con forze di terra che con attacchi aerei, affiancata in questo da una task force congiunta multinazionale che comprende truppe dai paesi limitrofi, Niger, Camerun, Ciad e Benin, vittime delle incursioni transfrontaliere del gruppo armato.
L’offensiva governativa ha ricacciato Boko Haram nella sua roccaforte della vasta foresta Sambisa, consentendo negli ultimi mesi alle agenzie umanitarie di avere accesso alle aree prima irraggiungibili e di valutare per la prima volta la portata del disastro umanitario. Dal 2009 si contano circa 15 mila vittime e più di 2 milioni di sfollati.

Costretto alla ritirata, Boko Haram ha fatto terra bruciata: edifici bombardati, scuole distrutte, terreni incolti, morti, devastazione. Secondo l’Unicef 75 mila bambini potrebbero morire nel prossimo anno nelle zone in precedenza controllate dai jihadisti.

Secondo l’Onu decine di migliaia di persone stanno morendo di fame nella zona dell’Africa occidentale dove i militanti di Boko Haram sono attivi. Circa 65 mila persone si trovano in una situazione di «catastrofe» o «fase 5» dell’Integrated Food Security Phase Classification (Ipc), vale a dire che anche in presenza di assistenza umanitaria, «la fame, la morte e la miseria» restano evidenti.

In tutta la regione del lago Ciad, più di 6 milioni di persone sono colpite da grave insicurezza alimentare, tra cui 4,5 milioni in Nigeria.