Lande desolate alle porte del Sahara, gli stati del Borno, dell’Amawa e dello Yobe nel nord-est della Nigeria, tra il lago Chad e i confini con il Niger e il Camerun. I più poveri tra gli altri 36 e isolati dalla zona petrolifera del Sud, coprono un’area di circa 150 mila km quadrati con una popolazione di 10 milioni di abitanti su un totale di circa 170 milioni di nigeriani quasi equamente distribuiti tra la maggioranza musulmana a nord e quella cristiana a sud. In questa regione semidesertica, oggi roccaforte del gruppo armato islamico Boko Haram, in seguito a una rivolta religiosa durante la crisi economica degli anni 80, un’ondata di disordini diramatisi da Kano – la principale città settentrionale – alle aree limitrofe, venne sedata da attacchi aerei che lasciarono sul terreno circa 5000 morti.

In questi stati da mercoledì si sono riversate migliaia di truppe di terra, colonne di soldati sostenute via aerea da jet ed elicotteri da guerra per sferrare la più massiccia operazione contro i guerriglieri di Boko Haram. Gente chiusa in casa, collegamenti tagliati tra il Borno e lo Yobe, coprifuoco dalle sei del mattino fino alle sei del pomeriggio.

Non trapela molto altro, se non qualche dettaglio spesso rilasciato da funzionari militari la maggior parte dei quali chiede spesso di non essere nominata. Regna lo sconcerto tra i civili del posto, terrorizzati da Boko Haram tanto quanto dall’esercito governativo. Un dispiegamento esteso di forze militari dopo che il presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha dichiarato martedì scorso in diretta radio e tv lo stato di emergenza nei tre stati di confine per far fronte all’intensificarsi degli attacchi del gruppo integralista e per arrestarne la rimonta. La via militare ha preso dunque il sopravvento su quella politica, sempre concretizzatasi, anche recentemente, in anemici tentativi falliti di concessione dell’amnistia.

Fonti militari nigeriane riferiscono di un attacco ieri nella Sambisa Game Reserve, una savana di 500 chilometri quadrati in una zona remota del Borno, con un raid aereo che avrebbe colpito due basi degli islamisti e ucciso almeno trenta combattenti. Mentre un gruppo di uomini armati, di non chiara appartenenza, attaccavano una stazione di polizia e una banca in una città nordoccidentale dello stato di Katsina. Segno, dicono alcuni analisti, che gli attacchi nel nord est potrebbero infiammare altre regioni e l’insorgenza di cellule ribelli che operano in altre aree.

Il presidente Jonathan, un cristiano del Sud, avrebbe lanciato la campagna militare, dicono in molti, sì per motivi di sicurezza ma soprattutto in risposta alle critiche per aver in malo modo e non sistematicamente fronteggiato in passato il vortice di violenze che da anni tiene sotto scacco civili e istituzioni. Infatti, benché a partire dal 2009 gli attacchi di Boko Haram siano costati migliaia di vite umane e rappresentino una grave minaccia alla stabilità politica e territoriale del Paese, il fatto che questi avvengano lontani da centri di rilevanza commerciale come Lagos o dalla capitale Abuja e comunque a centinaia di chilometri di distanza dalla regione petr[/TXT]olifera del sud, spiega perché probabilmente non abbiano rappresentato una priorità per l’establishment politico-economico. E spiegherebbe anche come lo stato di emergenza rischia di acuire gli attriti con i leader politici della regione settentrionale.

Proprio lunedì infatti, il Nigeria Governors’ Forum, organo rappresentativo dei 36 stati nigeriani, aveva messo in guardia Jonathan contro l’imposizione di uno stato di emergenza. Mentre, d’altro canto, i frequenti abusi dei militari nigeriani ai danni dei civili spiegano la paura di buona parte della popolazione e l’allarme lanciato giorni fa da Human Rights Watch (Hrw) e Amnesty International, che in più occasioni hanno denunciato e documentato esecuzioni sommarie e azioni di rappresaglia delle forze militari nigeriane. «Tutto ciò che si sta facendo è dare maggiori poteri ai militari, che hanno già troppi poteri e violano già in modo massiccio i diritti umani» ha dichiarato Lucy Freeman di Amnesty International.
Riemerso come l’araba fenice dal giro di vite del 2009, Boko Haram è ora ben organizzato e armato, de facto controlla già buona parte del territorio nordorientale, ha intessuto forti legami con gruppi integralisti islamici non autoctoni tra cui soprattutto con l’ala africana di al Qaeda, cioè al Qaeda in the Islamic Maghreb (Aqim) e ha preso il controllo di almeno 10 dei 27 distretti dello stato del Borno.

In Nigeria, un Paese tra i primi 10 produttori di greggio al mondo e un’economia in crescita, il tasso di disoccupazione è almeno al 23%, la gente vive con 2 dollari al giorno, nelle mani di una tra le classi dirigenti più corrotte. In questo scenario servirà ben altro che una massiccia operazione militare a frenare le aspirazioni politiche di Boko Haram, già molto vicino alla creazione di uno stato islamico nella regione settentrionale.