Escono per i tipi di Interlinea, Novara, due altri volumi dell’edizione nazionale delle opere di Matteo Maria Boiardo (Scandiano 1441 circa-Reggio Emilia 1494), patrocinate dal Centro Studi a lui intitolato: Historia imperiale attribuita a Ricobaldo, tradotta da Matteo Maria Boiardo, a cura di Andrea Rizzi e Antonia Tissoni Benvenuti (pp. 748, euro 48,00) e Vita de alcuni electi capitani (da Cornelio Nepote), a cura di Fabio Romanini (pp. 309, euro 36,00). Questi volumi vanno ad aggiungersi a opere precedenti, inserendosi in un piano ambizioso di ricostruzione filologica e commento di tutta la produzione poetica e prosastica di uno dei maggiori rappresentanti del nostro Quattrocento letterario. Affidata a un manipolo di studiosi, considerati tra i maggiori esperti del Boiardo, l’impresa ha raggiunto già dei significativi risultati con la messa a punto di edizioni sempre più raffinate dei testi di un autore che solo nell’ultimo secolo sembra aver cominciato ad avere quell’attenzione e quel rispetto che merita e che in precedenza pareva destinato a essere considerato marginale e periferico, in ragione soprattutto di una lingua orgogliosamente o difettivamente regionale (l’emiliano di partenza), per ragioni cronologiche lontana da ogni ripulitura regolistica rinascimentale. Ancora il De Sanctis, relativamente all’Inamoramento de Orlando, l’opera sua più significativa, esprime un giudizio stroncatorio e carico di ingiustizia: il Boiardo «non ha brio, non facilità, non grazia. Gli manca lo spirito e gli manca ancora quell’alta immaginazione artistica che si chiama fantasia».
Certo c’è nella produzione cortigiana del Boiardo anche molto di strumentale, di imposto, di non straordinario, in cui l’impegno di servizio va a sovrapporsi e a soverchiare la sua più schietta vena fantastica e poetica. Ma ora l’edizione nazionale dell’opera omnia, mettendo a confronto la varia produzione, può dare il giusto merito alle sue opere più esemplari (il Canzoniere, anzi gli Amores secondo la titolazione dell’autore, e l’Orlando), senza tuttavia svilire quel contorno di lavoro letterario che è stato il travaglio, oltre al servizio di governatorato e di burocratica amministrazione a pro degli Estensi, di tutta una vita: doppia fedeltà a una vocazione artistica mai trascurata e a una dedizione politica che per nascita, quale conte di Scandiano, era quasi per lui una via tracciata, un destino. Così accanto ai suoi vertici artistici più assoluti, la lirica di impronta petrarchistica e classicistica e il romanzo cavalleresco, la sua opera si aggira anche in una medietà di lavori con esiti a sfondo cortigiano ed encomiastico (le Egloghe, i Pastoralia, i Carmina de laudibus Estensium, il Timone) o di traduzioni letterarie di classici, di libri di storia o anche di compilazioni medievali, probabilmente su commissione o di servizio (l’Asino d’oro da Apuleio, La pedìa de Ciro da Senofonte, l’Historia da Erodoto, la Vita de alcuni electi capitani da Cornelio Nepote, la Historia imperiale da Ricobaldo). Alle Lettere è consegnata invece una parte a metà tra l’esperienza dell’attività amministrativa del funzionario pubblico e dell’informazione e l’intimità familiare.

Cultura classica, Institutio principis
Per venire ora più stringentemente al Boiardo come volgarizzatore, diciamo subito che impressiona la mole (oltre che le scelte di peso: Apuleio, Erodoto, per esempio) di tutto questo suo lavoro, che non trova spiegazione se non forse solo nelle utilità di corte, nelle necessità pratiche di una conoscenza e diffusione sempre maggiore della cultura classica greca e latina all’interno delle strette gerarchie del potere, e insomma dell’institutio principis. Fatto è che, come scrive il Dionisotti, «per la prima volta dopo il Boccaccio un grande scrittore italiano faceva anche professione di volgarizzatore».
Nel caso specifico del volgarizzamento della Historia imperiale, siamo di fronte a un caso filologico di difficile determinazione, perché non è dato sapere con certezza se si tratta di un’opera in tutto o in parte del Boiardo o non piuttosto di traduzione di un’opera perduta di Ricobaldo da Ferrara, un autore più o meno contemporaneo di Dante. La lunga dettagliata introduzione dei curatori si premura di sviscerare per quanto possibile la questione, addivenendo ad alcune considerazioni conclusive.
Partiamo dunque da questo volgarizzamento, anche se posteriore a quello di Cornelio Nepote (e databile, secondo Andrea Rizzi e Antonia Tissoni Benvenuti, intorno alla metà degli anni Settanta del Quattrocento), in ragione anche del fatto che si tratta di un’opera inedita nel suo insieme, avendo avuto in precedenza solo edizioni parziali e distanti nel tempo: da parte del Muratori nei suoi Rerum Italicarum Scriptores nel 1726 (solo i libri III e IV) e da parte dello stesso Rizzi nel 2008 (solo i libri I e II, Roma, Istituto Storico Italiano). La difficoltà attributiva dell’insieme nasce dalla unicità del manoscritto del XV secolo che ci tramanda il volgarizzamento dell’Historia Imperiale (conservato a Ravenna, nella Biblioteca Classense, n. 424), per il quale manca la possibilità di riscontro con la eventuale compilazione storica di riferimento. Quello che invece è certo è la destinazione del manufatto per la casa Estense e la biblioteca del Duca Ercole I, in ragione degli stemmi miniati iniziali e della dedica del Boiardo.
La struttura dell’opera, in quattro libri, non è strettamente paragonabile alle altre opere note di Ricobaldo, anche se il suo nome campeggia fin dal titolo. Il primo libro, Roma, considera gli imperatori romani, da Augusto a Costantino; il secondo, sotto l’etichetta Grezia si occupa dell’Impero romano d’Oriente fino a Costantino VI; il terzo, dedicato alla Francia elenca gli imperatori da Carlo Magno a Ludovico III; il quarto, che pur mutilo nella parte finale, risulta il più esteso, viene ripartito tra Italia (i quattro Berengari) e Alemania (da Ottone I a Ottone IV), con un’espansione descrittiva che pareggia quasi per numero di pagine tutti e tre i primi libri: segno di una intensificazione della narrazione e di una attenzione per la storia più recente e per le sopravvenienti civiltà ‘barbariche’, intese come concorrenti alla nascita della modernità.

Lo storico ferrarese e le altre fonti
L’impressione generale è che il Boiardo sia ricorso non a una precisa opera di Ricobaldo, ma a una commistione di varie opere dello storico ferrarese, con l’inserzione peraltro anche di fonti diverse e spesso chiaramente più tarde. In particolare nella dedica dell’opera si scorgono chiare riprese da Biondo Flavio, specie dalla sua Italia illustrata (1474) che pare avere per lui un certo ascendente. Ma le parti più problematiche restano ancora i libri III e IV, che allo stato attuale della ricerca non hanno trovato materiale documentario corrispettivo nella produzione superstite di Ricobaldo, talché bisogna ricorrere a considerazioni d’altra natura, o ritornando all’idea di un’autonoma espansione autoriale del Boiardo o immaginando una compilazione complessiva intermedia tra Ricobaldo e il volgarizzatore stesso (ipotesi cui sembrano accedere i curatori).
La dedica del Boiardo al suo Signore è anche un riconoscimento del valore educativo della storia («magistra de tute le cose di pace e di guerra»), vale a dire testis temporum e magistra vitae, come suona l’adagio ciceroniano. Ercole I incarna per il Boiardo una visione della storia che vuole lodevolmente recuperare il passato, promovendo opere come questa che ripristina il perduto valore dell’esperienza degli antichi, servendosi delle scritture di Ricobaldo, sia pure interpolate con acquisizioni ulteriori anche di autori non noti al compilatore medievale. Ma alla fine bisognerà anche considerare che il Boiardo riafferma la sua sostanziale estraneità a ogni manipolazione dell’opera, attribuendo al povero Ricobaldo la rozzezza della trattazione (fatta però salva la sostanziale utilità del resoconto) in quanto priva degli ornamenti di stile della classicità: «Vostra Eccellenza (…) incolpi la ria stagione quando scrisse il vostro cittadino (Ricobaldo), la quale inanti al tempo de Danti e di Francesco Petrarcha fu aliena in tutto da le elegantia del parlare…».
La Vita de alcuni electi capitani da Cornelio Nepote è invece il primo volgarizzamento in assoluto del Boiardo in favore di Ercole I, steso prima dei trent’anni, tra il 1467 e il 1471. L’edizione critica in questo caso è opera di Fabio Romanini, che si impegna anche in una strenua ricerca di un probabile testo latino di partenza di cui il Boiardo possa essersi servito. Ma la complessa situazione ecdotica della tradizione manoscritta e a stampa di Cornelio Nepote sembra portare più a esclusioni che a certezze, essendo intricate le vicende che conducono alla costituzione del testo, inizialmente neppure riconosciuto come opera del suo vero autore, ma attribuito a tale Emilio Probo: un fantasma della letteratura latina.
Il fondamento del volgarizzamento boiardesco è legato a un solo testimone manoscritto (Biblioteca Universitaria di Bologna, ms. 2616), peraltro non autografo, con glosse pure non autografe ma forse ispirate dal traduttore. La presente edizione è l’unica moderna (a non voler considerare quella di Olindo Guerrini e Corrado Ricci, edita per nozze nel 1885 e indi ripresa da Zanichelli nel 1908).
Una resa letterale dell’originale
Anche nella Vita de alcuni electi capitani la dedica al Duca mette in luce una giusta disposizione a una resa letterale dell’originale, evidenziando una pratica di fedeltà che forse giova prendere per programmatica e propria del volgarizzatore, così come essa si era rivelata (sia pure come scusa alla resa della elementarità dello stile) anche nei confronti di Ricobaldo: «Dal parlare (dell’autore ndr) mi scostarò mancho che sia posibile, studiandomi più de essere fidele interprete che eloquente». Ma qui lo scopo è anche quello dell’esaltazione del Duca, nelle sue imprese civili e militari, considerato il facile rispecchiamento che si intende instaurare tra lui e il novero degli eccellenti condottieri messi in campo dallo storico latino: “Io cognosco la vita tua per vera forma reapresentarse in quella di quisti illustri (…) havendo io per cognosciute prove in testimonio tutta Italia de’ gesti tuoi, e di pace, e di guerra, non fuccati da li varii colori degli eleganti poeti, né ampliati da la diffusa loquacitade de li Greci scriptori, ma solidi et eminenti nella sua cognosciuta virtute».
La lingua di questo volgarizzamento (partitamente descritta e anche illustrata in un utile glossario da Romanini e parametrata sull’ultima edizione critica di Cornelio Nepote, messa insieme da Peter K. Marshall nel 1977) si divincola entro un regionalismo che tende a una koinè padano-ferrarese (manifesta soprattutto sul piano fonetico-morfologico, ma non solo) e in un lessico che si sporge volentieri, sul piano stilistico verso i toscanismi e più ancora i latinismi che affiorano dal fondo della matrice testuale latina come imprescindibili e quasi non trasferibili. Ne risulta una lingua mossa e non ancora in tutto stabilizzata che tende a farsi ‘illustre’ pur senza dimostrare ancora una sua fissazione morfosintattica precisa, pur in presenza di tante astuzie d’arte e tessere di evidente eleganza.
Le due edizioni critiche qui prese in considerazione costituiscono un passo in avanti nella conoscenza di un aspetto certo minore della personalità poetica e letteraria del Boiardo, ma ne illuminano l’importante funzione di promotore culturale e di divulgatore di storia nella Corte Estense e nella Ferrara del secondo Quattrocento.