Scrisse sotto pseudonimo, col nome di Nescio, che in latino vuol dire «non so», e scrisse poco, anzi pochissimo, se si considera il cuore dell’opera, un pugno di novelle, tre per l’esattezza, rimaste pressoché inosservate al momento della pubblicazione. Le scrisse nell’arco di un decennio, il secondo del secolo scorso, quello della Grande Guerra. La prima risale al 1911, s’intitola Lo scroccone e il suo incipit suona così: «A parte l’uomo che riteneva la Sarphatistraat il posto più bello d’Europa, non ho mai incontrato un tipo più strano dello scroccone». La Sarphatistraat è una strada che corre nel centro di Amsterdam descrivendo un semicerchio, come molte altre strade di quella città. È però l’unica di quelle strade a conservare lo stesso nome su entrambi i lati del fiume Amstel. Che sia il posto più bello d’Europa è quantomeno opinabile, a meno di non mettere Amsterdam in cima ai propri amori, ed era ovviamente il caso dell’uomo in questione, lo scrittore e psichiatra Frederik van Eeden, il quale, oltre a stravedere per la Sarphatistraat, coniò il termine «onironautica» per indicare uno stato nel quale si prende coscienza di trovarsi in un sogno e si può pertanto esplorarlo in piena consapevolezza e modificarlo a proprio piacimento. Non ci è dato sapere se Nescio trovasse strano van Eeden per via della sua passione per la Sarphatistraat o se questa passione fosse soltanto un modo per evocare un uomo strano; quel che sappiamo per assodato è che oggi, a distanza di un secolo, l’incipit in questione occupa un posto di primo piano nella memoria dei lettori olandesi, alcuni ritengono che sia perfino l’incipit più famoso di quella letteratura.

L’opera di Nescio, della quale sapevamo finora più nulla che poco, trova finalmente una versione italiana grazie a Storie di Amsterdam (Iperborea, traduzione di Fulvio Ferrari e postazione di Cees Noteboom, pp. 207, euro 16,00), che raccoglie le sue tre novelle e un testo più tardo, del 1946, un racconto composto di vecchi frammenti perlopiù risalenti anch’essi agli anni dieci del secolo scorso. Quanto all’uomo che si nascondeva dietro un eteronimo tanto socratico, il tratto probabilmente più significativo è che, almeno all’apparenza, condusse un’esistenza affatto diversa, se non agli antipodi dei personaggi che ha consegnato alla carta.

Nei suoi anni più giovani, Jan Hendrik Frederik Grönloh – questo il nome per esteso – coltivò sogni e vagheggiò utopie, si iscrisse al Partito Socialista e, insieme ad alcuni amici, si unì a una comune creata proprio da Frederik van Eeden, il fervente ammiratore della Sarphatistraat.

C’erano tutti i presupposti per una vita deragliata, anticonformista, anticipatrice delle vite che si vivranno in massa decenni dopo, al tempo dei figli dei fiori. Col tempo, giunse però a più assennati consigli. Divenne un nederlandese modello, un borghese perbene, operoso, direttore di una piccola società commerciale, marito fedele e padre di quattro figlie. Lo si sarebbe tranquillamente scambiato per uno di quei «signori sempre affaccendati, convinti di essere arrivati».

Gli slanci ideali e letterati di gioventù sopravvissero in forma addomesticata, con altra identità sebbene con scarso successo. Il trittico di racconti costituito da Lo scroccone, Giovani titani e Il piccolo poeta, uscì per la prima volta in volume nel 1918. Delle cinquecento copie stampate, più della metà rimasero invendute. D’altra parte non fu pubblicato da un vero editore, bensì da un illuminato, un mercante d’arte nella cui galleria erano esposte opere di artisti come Van Gogh, Picasso e Gauguin.

Malgrado i pochi riconoscimenti, arrivati soltanto nella mezza età avanzata e dopo la rivelazione della sua identità di scrittore, Nescio fu sempre convinto del proprio valore. «Per ora non vengo apprezzato» diceva ai famigliari. «Ma dobbiamo pazientare. Vedrete se non ho ragione». E l’aveva. Cosa gli impedì di essere compreso sul momento? Secondo Noteboom «una provocatoria novità, tanto inaspettata che i lettori della sua epoca e della terra decisero in silenzio di ignorare quella nuova prosa», una prosa solo in apparenza povera, fatta di laconica colloquialità e malinconica ironia. E poi personaggi delle sue storie, quelli che Noteboom chiama «bohémien senza divisa» e che nei fatti non sono altro che «persone normalissime, vagabondi di una società compattamente borghese con cui non collaborano, ma in cui sopravvivono con le loro bizzarrie».

Prendiamo per esempio Japi, lo scroccone del racconto omonimo: è risolutamente improduttivo, l’antitesi dell’olandese sempre affaccendato. La sue uniche attività sono di ordine parassitario: mangia a sbafo, chiede soldi in prestito, indossa vestiti che non paga e così via; uno scroccone appunto. Tanta inerzia non è tuttavia frutto di un’indole eccezionalmente pigra, giacché il suo ozio non è che il segno di una vocazione alla nullità. Dice lo scroccone: «Non compongo nemmeno poesie, non sono un amante della natura né un anarchico. Grazie a Dio non sono assolutamente niente». Non essendo niente, può fare una cosa soltanto, attendere il nulla supremo: «Sono occupato a morire. La cosa migliore è starsene fermi: muoversi e pensare va bene per gli idioti. Io non penso nemmeno. È già un peccato dover mangiare e dormire». Ma il momento più rivelatore del racconto è quando Japi irrompe nella casa di Koekebakker, voce narrante del racconto. Lo scroccone è accompagnato da un pittore o meglio è quest’ultimo ad accompagnare lo scroccone.

L’amico di Koekebakker è infatti lui, il pittore, ed è il pittore che invita lo scroccone a entrare nella soffitta di Koekebakker come fosse sua; ed è sempre lui che lo sollecita a fumare i sigari di Koekebakker come fossero suoi. Anche Koekebakker è un bohémien senza divisa, ma non lo è abbastanza da dimenticare il senso di un aggettivo possessivo, ovvero da non notare che si sta parlando della sua soffitta e dei suoi sigari.

In una delle rare interviste concesse nella maturità, Nescio spiegò la ragione per cui preferì tenere nascosta la sua attività di scrittore: «Ho passato tutta la mia vita in un ufficio e, in posti del genere, qualora scoprano che hai simili inclinazioni, si fanno l’idea che non lavori bene». Se a un certo punto decise di smascherarsi fu soltanto perché stava prendendo piede l’ipotesi che Nescio fosse il suo primo editore, il mercante d’arte. Il che era comprensibile: strani personaggi come lo scroccone si attagliavano poco a un borghese posato e molto invece a un mercante di Van Gogh, artista ancora abbastanza «strano» per quei tempi. Negli anni venti e trenta il vero Nescio non scrisse una parola e nemmeno di questo c’è da stupirsi, visto che nel 1926 aveva raggiunto i massimi vertici della Holland and Bombay Trading Company. Pare fosse un capo particolarmente esigente e severo. Come avrebbe potuto ottenere il necessario rispetto se i suoi sottoposti avessero saputo di personaggi quali lo scroccone?

Tra l’esistenza effettiva di Grönloh e le vite raccontate da Nescio le contraddizioni appaiono insanabili, ma sarebbe ingiusto e sbagliato farsi l’idea di un uomo dalla doppia anima, Rimbaud di notte e austero borghese di giorno. Prima ancora che artisti, poeti, pensatori nullafacenti, i bohémien di Nescio sono infatti giovani o persone che pensano da giovani, persone per le quali un sigaro è semplicemente qualcosa che si può fumare, e non un sigaro di qualcuno. Sono antenati degli adolescenti di Salinger, e c’è un tempo per essere giovani Holden e un altro per morire o sparire o diventare dirigenti d’azienda. Il che è in fondo la stessa cosa, lo stesso ironico destino, il malinconico orizzonte degli stupendi racconti di Nescio.