«Ho dato la colpa al mondo intero, solo perché mi sono sbagliato sul tuo conto; ho chiuso con tutti. Ora riesco a vedere in faccia la verità, ma non posso fare altro che condannare me stesso a una solitudine eterna». Questa è una delle ultime riflessioni del protagonista di Madonna col cappotto di pelliccia di Sabahattin Ali, che sarebbe facile catalogare tra le storie d’amore con finale triste, quelle in cui la speranza di un’infinita felicità di coppia naufraga in direzione uguale e contraria nella nera disperazione (Fazi Editore «Le strade», traduzione di Barbara La Rosa Salim, pp. 209, euro 16,00). Uno dei più famosi romanzi della letteratura turca del Novecento, scritto nel biennio 1940-’41 e uscito nel ’42, è in sostanza una privata vicenda sentimentale di due persone qualunque, lui figlio del proprietario di una fabbrica di sapone, lei pittrice. Senza nulla togliere al fascino delle grandi storie d’amore, che spesso sono grandi proprio in virtù della loro tragicità e non perché riguardino personaggi nobili, il libro in questione va letto anche e soprattutto sul piano allegorico.
Guardare «sotto il velame» del piano letterale di qualsiasi narrazione d’arte è perfettamente legittimo, insegnava Dante nel Convivio. Trattando di letteratura turca, è spesso necessario, considerando le relazioni tradizionalmente assai difficili tra gli scrittori e il potere in età repubblicana – del resto in sostanziale continuità con il passato ottomano. Se il sultano o il presidente e le autorità in genere non gradiscono gli scritti che dissentono dal coro di corte, all’artista non rimane che esprimersi fingendo di parlare d’altro. La tecnica, antica quanto le favole e le fiabe, nel caso del romanzo di Ali permette di criticare il nazionalismo turco e al tempo stesso l’abbraccio tra Turchia repubblicana e Terzo Reich tedesco che nel giugno 1941 sfociò in un Trattato di alleanza, durato fin quasi alla fine della Seconda guerra mondiale, quando la Turchia, interrotte da alcuni mesi le relazioni commerciali e diplomatiche, dichiarò guerra alla Germania (febbraio ’45). Gli amanti del romanzo di Sabahattin Ali sono infatti un ragazzo turco mandato dal padre a Berlino negli anni venti a studiare i progressi dell’industria saponiera e una ragazza tedesca che dipinge per passione e si esibisce come cantante nei locali notturni per mangiare. Raif ben presto si disinteressa degli affari e comincia a studiare il tedesco letterario, avvicinandosi alla culturale occidentale, Maria nella sua bohème artistica, inquieta e vitale, sembra incarnare lo spirito della Repubblica di Weimar. Le pagine che raccontano la nascita e lo sviluppo della loro relazione sono tra le più affascinanti del libro. Raif rimane incantato da un ritratto femminile esposto in una mostra di giovani pittori che evoca in lui memorie di studente e fantasie di ragazzo. Quel volto amabile che gli ricorda una Madonna di Andrea del Sarto non è però un ritratto, ma l’autoritratto di una Maria Puder che è lì nella galleria insieme a lui. A questo punto l’intreccio che si dipana tra Berlino e la Turchia va lasciato alla curiosità del lettore. Vale la pena però tornare alla frase d’apertura, e provare a leggerla non in chiave amorosa, ma politica. Vi si può così trovare una sottile critica dell’autore a un tipico sentimento del nazionalismo in genere e quindi anche di quello turco: sentirsi circondati da nemici e potenzialmente traditi dagli alleati. A volte, insinua Ali, a pensare male non solo si fa peccato, ma si sbaglia. Raif si era sbagliato sul conto di Maria, ma non può rimediare all’errore. Il senso di soffocamento che dà il racconto di questa condizione è  moltiplicato dalla mise en abyme del romanzo.
L’appassionata gioventù weimariana di Raif Effendi (che en passant già avverte nell’anziano Herr Döppke, ospite della sua stessa pensione berlinese, i primi segnali di quel malcontento tedesco post-bellico destinato a sfociare nell’ascesa al potere del partito nazista) nel famigerato anno 1933 è stata consegnata alle pagine di un diario che finisce nelle mani di quello che nel primo quarto del romanzo sembra esserne il protagonista, un io narrante senza nome. Costui, disoccupato senza qualità, incontra per caso un ex-compagno di scuola, Hamdi, che è diventato proprietario di un’azienda, e grazie a lui ottiene un posto da impiegato. Il nuovo arrivato affianca il vecchio Raif, traduttore di lettere commerciali in tedesco, uomo così grigio e mansueto da accettare tutti i maltrattamenti e gli sgarbi del padrone e dei colleghi, senza mai ribellarsi. Anche in famiglia la vita di Raif è opprimente: moglie, figlie e parenti vari vivono grazie al suo stipendio, ma non gli nascondono il loro disprezzo. La voce narrante è dunque, da una parte, espediente narrativo per delineare la figura di Raif Effendi, dall’altra ricopre il ruolo dell’investigatore. Come in un racconto di Pirandello (Il treno ha fischiato ad esempio), Madonna col cappotto di pelliccia narra di un individuo soffocato da un doppio carcere (il luogo di lavoro e la casa) senza uscita. I suoi carcerieri sembrano convinti che il carcere sia ben meritato: la remissività stolida di Raif sembra invocare di per sé il maltrattamento.
L’investigazione del giovane collega arriverà a ribaltare il quadro: Raif ha molta più sensibilità e umanità di tutti quelli che lo trattano dall’alto verso il basso. Conosce i grandi della letteratura turca di fine Ottocento, ma ama anche il romanzo russo e la pittura italiana. La punizione che si lascia infliggere sembra piuttosto un’autocondanna per aver amato da giovane (e qui lasciamo il piano letterale per quello allegorico) la Germania migliore, quella di Weimar, ma senza fidarsene fino in fondo. Cosa dire ora che ha prevalso la Germania nazista e la Turchia si schiera al suo fianco? Se la lettura è corretta, essa può contribuire a spiegare il motivo per cui nel periodo di repressione seguito al tentativo di colpo di stato nel luglio 2016, questo romanzo d’amore (i cui diritti scadevano alla fine del 2018) abbia venduto un milione di copie – come già testimoniavano Tim Arango  sul New York Times (26 febbraio 2017) e Marco Ansaldo su Repubblica (3 marzo 2017). Anche la biografia dell’autore contribuisce a fare di lui un simbolo della difficile opposizione a Erdogan oggi. Sabahattin Ali (1907-’48), che aveva manifestato le sue doti di scrittore già ai tempi della scuola, divenuto insegnante e comunista, nel 1932 fu messo in carcere per aver scritto una poesia in cui criticava la politica di Atatürk e amnistiato l’anno dopo (nel ’33 cadeva anche il decimo anniversario della nascita della Repubblica turca). Negli anni trenta, scrivere poesie comuniste condusse in carcere diversi altri. Il caso più famoso è quello del grande Nazım Hikmet, ma va ricordato anche Orhan Kemal che, per aver scritto una poesia elogiativa di Hikmet durante il servizio militare, nel ’39 venne condannato a cinque anni di reclusione e per ironia della sorte ne trascorse tre e mezzo con lo stesso Hikmet, a Bursa. Finita la guerra la situazione non sembra cambiare molto. Sabahattin Ali, co-fondatore nel 1946 del settimanale «Marko Pascià», subirà varie persecuzioni per i suoi articoli, fino a che non venne ucciso nel ’48 in circostanze ancora in parte oscure, mentre tentava di riparare in Bulgaria. Quel mondo è ormai consegnato alla Storia, ma il presente lo riporta tristemente in vita.