«La mia prigionia è politica, pensata come intimidazione». Da remoto, in videoconferenza, Caner Perit Onez ha fatto del tempo a disposizione lo spazio per denunciare i tre mesi di detenzione cautelare subiti insieme a Ersin Berke Goz.

Il tribunale era la 22esima Corte Penale di prima istanza di Istanbul, l’occasione l’udienza di apertura del processo a loro carico per «deprivazione della libertà di più di una persona nell’esercizio del proprio dovere», «tentativo di impedire il compimento del loro dovere» e «sequestro di veicolo».

PER COMPRENDERE le accuse (per cui rischiano da sei a 32 anni di prigione) mosse nei confronti dei due giovani turchi, studenti della Bogazici University, si deve tornare al 4 ottobre 2021 quando, secondo l’accusa, Perit Onez e Goc avrebbero aggredito il rettore Naci Inci, impedendogli di salire sulla sua auto. Loro negano. Comunque sia, il fascicolo è stato aperto, con accuse surreali: Inci non poteva compiere il suo dovere, la sua auto è stata pure oggetto di un tentato sequestro. E una guardia è stata picchiata.

I video di sorveglianza dicono altro, come dice altro l’assenza di referti medici dei presunti aggrediti. Il presidente Erdogan, il giorno dopo, parlò «di terroristi che infiltrano le nostre università», leitmotiv di una narrazione iper governativa e paternalistica, di difesa dello Stato padre-padrone e del suo nucleo fondamentale, la famiglia (perché nella propaganda di questi mesi c’è stato ampio spazio per il «mostro bicefalo» studenti-Lgbtqi+).

Ieri i due studenti hanno segnato un primo punto: la corte li ha rilasciati, dopo tre mesi di detenzione cautelare, imponendo loro il divieto di espatrio. Il rilascio arriva dopo giorni di pressioni sulle autorità turche: quelle dell’Unione europea (attraverso la lettera di quattro europarlamentari) e quelle di strada, delle studentesse e gli studenti della Bogazici che un anno dopo la prima protesta sono ancora in piena mobilitazione.

Le manifestazioni, iniziate con il capodanno 2021, erano partite dopo la nomina a rettore di Melih Bulu, uomo fidato del presidente Edogan che, calpestando ogni procedura l’aveva imposto a capo del più importante ateneo del paese, pubblico e da sempre accessibile ai giovani delle classi basse quanto ai figli dell’élite turca.

Ne sono seguiti mesi di scontri, proteste, arresti, pestaggi. Di una militarizzazione immediata del campus che guarda al Bosforo, con guardie e barriere di ferro a protezione dell’ufficio di un rettorato, il potere che si barrica. Mesi di un rapido contagio politico: a fianco della Bogazici si sono sollevate altre università, perché la questione delle nomine dall’alto (secondo linee clientelari nemmeno camuffate) non è l’eccezione, ma la normalità nella Turchia del post-tentato golpe.

ALLA FINE BULU aveva desistito. Al suo posto, nell’agosto scorso, era stato nominato il suo vice, Naci Inci. Non è cambiato nulla, anzi è andata peggio: maggiore repressione, distruzione delle tende del presidio, rimozione dei docenti ribelli. E dunque ancora proteste. Ieri di fronte alla corte Gok ha ricostruito l’arresto, le torture fisiche e psicologiche in detenzione, l’assenza di cure mediche, di libri, di cibo, e su tutti «l’usurpazione del mio diritto all’educazione».

Ai giudici si sono rivolti anche i professori, da un anno al fianco degli studenti nella protesta (di nuovo viva in questi giorni, primo anniversario della mobilitazione): hanno elencato le punizioni collettive subite da chi si è sollevato, migliaia di fermi, decine di rinvii a giudizio, la perdita di centinaia di borse di studio e della possibilità di studiare all’estero per i divieti di espatrio, la cacciata di una decina di docenti.

«Questa pressione – hanno detto i professori, leggendo una dichiarazione comune – è diretta verso qualsiasi tipo di opinione e voce dissidente. Non rinunceremo all’ideale di un’università democratica, libera e autonoma».

IDEALE CHE SI ALLARGA al mondo fuori dai confini di un campus e che spesso finisce intrappolato in quelli di una cella. Ieri il giornalista curdo Rojhat Dogru è stato condannato all’ergastolo, con l’accusa di «attentato all’unità dello Stato e all’integrità della nazione» e «appartenenza a organizzazione terroristica».

Il motivo: nel 2014 coprì come giornalista le proteste scoppiate nel sud-est turco dopo l’occupazione di Kobane da parte dell’Isis, a cui seguirono violenti scontri e l’uccisione di 31 persone. Per la procura in mano non aveva una telecamera ma un’arma da fuoco. Su di lui ora pesa un mandato d’arresto.

È invece tornato libero giovedì, dopo cinque anni, l’ex parlamentare dell’Hdp Abdullah Zeydan, arrestato nel novembre 2016 con una decina di colleghi, tra cui i due allora leader del Partito democratico dei popoli, Figen Yüksekdag e Selahattin Demirtas, con cui ha condiviso la cella nel maxi carcere di Edirne. La Corte suprema d’Appello ha cancellato la condanna a otto anni per sostegno a gruppo terroristico.