Il paese va oggi alle urne per un plebiscito al quale non è riuscito a sottrarsi, guidato da una leadership comatosa e osteggiata. Ci va controvoglia o con l’intento di punire i responsabili del mess, il caos Brexit di cui la stessa leader fa ormai parte per meriti sul campo.

Lei ovviamente persiste nella sua disforia cognitiva: è la vostra «ultima chance» di evitare la cancellazione della British exit, aveva detto ieri testualmente ai parlamentari riottosi Theresa May, ben sapendo di essere lei a giocarsi la propria. Con l’ultima, disperata concessione ai remainer di tutto lo spettro politico – sostenete il mio accordo e avrete proprio quel secondo referendum che io stessa fino a ieri giuravo sarebbe dovuto passare sul mio cadavere – May è ormai arrivata al capolinea per davvero. Mentre scriviamo membri del governo la assediano per avere spiegazioni, le richieste di dimissioni si sono fatte assordanti, la ridda di nomi a succederle lunga con capolista il solito noto, Boris Johnson.

Il «nuovo» testo sarà presentato in aula domani, Westminster lo voterà per la quarta volta dopo le tre consecutive precedenti sconfitte e – siamo nei margini della certezza – lo boccerà di nuovo.

QUEST’ULTIMO CAPARBIO rilancio di May ha provocato rabbia a destra, a sinistra e al centro: anche gli sparuti sostenitori del suo accordo l’hanno abbandonata furibondi. Non vogliono saperne la maggioranza dei Tories, il Dup e ovviamente nemmeno il Labour, intrattenutosi per questioni meramente tattiche in settimane di colloqui con il governo che si sapeva non avrebbero portato da nessuna parte (nonostante la distanza fra Corbyn e il suo vice arci-remainer Tom Watson).

Il tutto mentre si affastellano notizie di tregenda come l’industria siderurgica nazionale che cola a picco (e con essa 5000 posti di lavoro, il Labour vuole nazionalizzarla), lo speciale relatore Onu per la povertà Philip Alston che denuncia nel Paese «sistematici e tragici» livelli di povertà al termine di una lunga indagine (ha paragonato la situazione odierna alle case di lavoro vittoriane descritte da Dickens) o i Tories dati al 22% e superati nei sondaggi dall’ultimo frettoloso accrocco di partito varato settimane fa e già dato al 24%: il Brexit Party della loro nemesi Nigel Farage. Che nonostante sia stato fatto oggetti di ripetute contestazioni al lattosio (lanci diffusi di frullati sulle sue grisaglie) e ora d’indagini su finanziamenti illeciti all’Ukip – unico vero trionfatore alle europee del 2014 e ora sul punto di estinguersi – quando era il suo partito, appare come unico probabile trionfatore.

QUELLA DI MAY è stata per mesi e mesi la cronaca di una morte politica annunciata di continuo e mai consumata: ma con tutto il partito che medita sul modo migliore di liberarsene ora che esso stesso si sporge sull’abisso del 9% quel momento è ormai arrivato.

Per capirci: non solo nessun Tory se la sente di fare campagna su elezioni da cui avrebbe dovuto esimere il proprio elettorato. Il sito ufficiale del partito invita apertamente a votare per Farage qualora la premier oggi fosse fortuitamente ancora in sella dopo aver resistito all’ennesimo, febbrile coup. Ed è comunque certo che i Tories dovranno mettersi d’accordo con lui.

PER QUESTO È DIFFICILE immaginare una vigilia delle europee più surrealista per la Gran Bretagna. Sia la leader – sfiduciata ma inamovibile – sia il Paese tutto, che si è espresso di stretto margine per un commiato che non riesce a realizzare, fanno pensare agli aristocratici invitati dell’Angelo sterminatore di Buñuel: finita la cena, non riescono in nessun modo a lasciare la casa dei loro ospiti.