Mentre si concludeva la sua trasferta francese, Donald Trump si è dovuto confrontare con diversi problemi che arrivano dagli Stati Uniti, tra cui un ennesimo smacco sul famigerato Travel Ban, che in ogni sua versione contiene sempre tante parti talmente incostituzionali che per i giudici non è complicato appellarvisi.

L’ultimo caso riguarda la versione più recente del divieto temporaneo di ingresso negli Stati Uniti voluto dal presidente e che riguarda i cittadini di sei paesi a maggioranza musulmana, Libia, Siria, Sudan, Iran, Yemen e Somalia: secondo la sentenza della Corte suprema entrata in vigore il 29 giugno 2017 in attesa del giudizio di costituzionalità in merito, previsto per ottobre, i cittadini provenienti da questi paesi possono entrare legalmente negli Stati Uniti solo se in grado di dimostrare legami di affari o familiari in America. Ma questi legami familiari nella versione di giugno non comprendevano nonni, zii, cugini.

Sin da subito si è compreso che la definizione arbitraria su chi si potesse considerare «familiari stretti» avrebbe creato problemi. Infatti è proprio a questa definizione che si è appellato Derrick Watson, giudice della corte delle Hawaii, che con quella di San Francisco è la più attiva nell’opporsi sistematicamente al Muslim Ban.

La sentenza del giudice hawaiano ha stabilito che i nonni, gli zii e i cugini, possono a tutti gli effetti essere considerati «familiari stretti» e che quindi il bando non può coinvolgerli, limitando così l’efficacia del Muslim Ban e consentendo l’ingresso a un numero maggiore di rifugiati e migranti.

Il procuratore generale delle Hawaii, Douglas S. Chin, ha dichiarato che con questa sentenza il tribunale ha chiarito «che il governo degli Stati Uniti non può ignorare la portata di questo divieto di viaggio a proprio piacimento: membri delle stesse famiglie sono stati separati, persone reali hanno già sofferto abbastanza».

Il braccio di ferro tra Trump ed i giudici sul Muslim Ban non è l’unico grattacapo del presidente. Un grosso problema continua ad essere la legge sulla sanità che anche nella nuova versione riscritta dal senato non riesce a raccogliere il numero di consensi necessario per passare, nonostante nelle ultime proposte siano stati ridotti i costi assicurativi per i consumatori, consentendo così alle assicurazioni di vendere nuove polizze a basso costo.

Questa aggiunta non è stata ritenuta sufficiente da alcuni senatori repubblicani, che hanno affermato di non essere impressionati dalle revisioni apportate al disegno di legge che avrebbero dovuto colmare il divario tra conservatori e moderati del partito.

Dean Heller, senatore del Nevada, che l’anno prossimo dovrà confrontarsi con la rielezione, Susan Collins del Maine e Lisa Murkowski dell’Alaska, hanno più volte indicato di non poter votare la legge senza un sostegno economico importante per il Medicaid. Collins ha confermato che voterà contro la proposta di legge riveduta in quanto i tagli al Medicaid sono ancora presenti.

Questa lotta interna tra i repubblicani sulla sanità evidenzia la frammentazione in cui versa il partito, mentre si confronta su un tema che in teoria dovrebbe vedere tutti compatti: l’Obamacare sin dall’inizio ha catalizzato l’opposizione di tutti i repubblicani che hanno avuto tempo per teorizzare un piano alternativo.

IL Gop, però, è evidentemente frastagliato in tante declinazioni diverse di conservatorismo più o meno compassionevole, e non riesce ad accordarsi nemmeno su come affrontare, ora che può, il proprio nemico comune più odiato.

Il clima è teso non solo per via delle diverse strade che il partito ha preso negli ultimi 8 anni, ma anche per la nuova svolta sul Russiagate che vede coinvolto Don jr, primogenito di Trump, e il suo incontro con rappresentanti del governo russo ansiosi di affidargli rivelazioni screditanti su Hillary Clinton e il partito democratico.

In questo quadro è arrivata la notizia del suicidio di Peter Smith, donatore repubblicano di Chicago che, stando al Wall Street Journal, aveva cercato di ottenere dagli hacker russi le mail scomparse dal server di Clinton. Il corpo dell’81 enne Smith era stato trovato a maggio in una camera d’albergo a Rochester. Dieci giorni prima aveva rilasciato un’intervista al Wsj raccontando i suoi sforzi nell’ambito dell’emailgate.