Otto decreti legge, uno solo convertito dal parlamento e nel frattempo già modificato da un decreto successivo. Dieci decreti del presidente del Consiglio dei ministri (i famosi Dpcm) e quarantasette tra decreti e ordinanze di Protezione civile. Ventuno decreti ministeriali, firmati da nove ministri diversi, e poi venti ordinanze ministeriali, sei direttive e sessantadue circolari. Nove ordinanze del commissario straordinario Arcuri. In due mesi e mezzo (dal 31 gennaio a ieri) il governo ha edificato una cattedrale di atti per (cercare di) gestire l’emergenza coronavirus. Ma molto di più, e spesso di peggio, hanno fatto le regioni che nello stesso periodo hanno prodotto la bellezza di 379 ordinanze (il conteggio è preso dai documenti che il ministro Boccia ha fatto avere ieri ai deputati della prima commissione, è incompleto perché gli ultimi atti sono in attesa di pubblicazione). Chi in futuro vorrà studiare la risposta delle istituzioni italiane alla pandemia dovrà leggersi oltre seicento atti normativi – almeno per questa prima fase (meno della metà) dell’emergenza dichiarata (1 febbraio-31 luglio).

Chi ha già cominciato a fare questo esercizio, come i servizi studi della camera e del senato, ha messo nero su bianco qualche elemento critico che può aiutare a districarsi nella contesa tra stato centrale e regioni. Gli effetti di questo scontro sono evidenti, ben oltre le frequenti litigate tra ministri (soprattutto Boccia) e presidenti di regione (soprattutto Fontana). Se infatti l’assetto costituzionale italiano lascia alle regioni ampia autonomia e responsabilità di intervento per fare fronte a emergenze sanitarie particolari del territorio, resta un mistero per quale motivo i cartolai della Campania siano più pericolosi di quelli del Lazio o i podisti del Veneto meno minacciosi di quelli laziali. Esempi questi di un cattivo uso della discrezionalità regionale sulla quale il governo si è appoggiato sin dal suo primo decreto, richiamando la legge che ha istituito il servizio sanitario nel 1978 (per inciso si tratta di quella che l’assessore lombardo Gallera ha dichiarato di aver letto con ritardo, a disastro nella bergamasca compiuto).

Chi ha torto e chi ha ragione? A oltre un mese di distanza dal primo decreto legge, il 25 marzo il governo ha cercato di mettere un po’ d’ordine nella gerarchia delle fonti legislative, per esempio stabilendo (articolo 3 del decreto 19/2020) che le regioni possono introdurre misure «ulteriormente restrittive» rispetto a quelle nazionali, ma senza intervenire sulle «attività produttive» specie «quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale». Eppure tutte le misure per la gestione dell’emergenza, fanno notare adesso i tecnici di camera e senato, «sono potenzialmente idonee ad incidere, anche solo indirettamente, sulle attività produttive». Dunque meglio avrebbe fatto il governo a scrivere che le regioni non possono intervenire «direttamente» sugli impianti produttivi, decidendo caso per caso quale impianto riaprire e quale tenere chiuso.

È invece quello che sta accadendo, ad esempio il Veneto ha già fatto partire la fase 2. «Si tratta di aprire attività economiche molto caratteristiche che potevano sfuggire alla valutazione nazionale – ha garantito Boccia ai deputati della prima commissione della camera – in questo caso le riaperture vanno sul tavolo del prefetto, credo che l’ordinanza di Zaia vada in questa direzione». Il ministro per gli affari regionali ha «consigliato» però alle regioni di «aspettare le valutazioni del rischio per le singole categorie dei lavoratori» che sta facendo l’Inail.

Discorso diverso per le misure più restrittive. «Le regioni hanno sempre avuto la possibilità di adottarle», ha ricordato Boccia, spiegando che tutte le ordinanze territoriali che irrigidiscono il lockdown «sono opportune e aiutano». Lo prevede in effetti l’ultimo decreto, consentendo solo «misure ulteriormente restrittive». Ma quello che il ministro non ha ricordato è che quel decreto, arrivato dopo un mese di caos, ha anche previsto che le ordinanze regionali si giustificano adesso solo in attesa («nelle more») di decisioni quadro del governo nazionale. E «con efficacia limitata fino a tale momento». Da allora di Dpcm il Consiglio dei ministri ne ha prodotti ben due. Il tempo per le fughe in avanti dei governatori doveva essere scaduto.