Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio della Camera, esponente del Partito democratico e ideatore della cosiddetta «web-tax transitoria» attualmente in vigore in Italia, vede passi avanti dal vertice europeo di Tallinn?

È positivo che il nostro premier Gentiloni, in accordo con una Francia su questo nodo molto determinata, abbia insistito sulla necessità che i colossi del web paghino le tasse nei paesi in cui operano. Punto che viene portato avanti anche da Germania e Spagna, ma che vede purtroppo nuovi rinvii da parte di Bruxelles. Il presidente Juncker ha già rimandato una posizione dell’Ecofin a dicembre, e ha spiegato che la Commissione presenterà una sua proposta entro primavera. Dirò una cosa un po’ cattiva: ritengo che Juncker non sia un perfetto arbitro su questi temi, visto che è leader politico indiscusso del principale paradiso fiscale europeo. Lussemburgo, Irlanda e Olanda si oppongono a qualsiasi accordo, e questo non va bene.

Eppure la Commissione Ue ha presentato un primo schema. Si parla di basare la tassa su un imponibile comune, sui fatturati o sui profitti, sui proventi della pubblicità. È troppo poco?

Dobbiamo andarci cauti sullo stabilire regimi diversi per chi opera on line e chi opera off line, anche perché – come già accade oggi – i primi rischiano di fagocitare i secondi poiché risultano e risulterebbero molto più competitivi grazie a una sorta di privilegio fiscale. Oggi Amazon ti manda a casa un frigorifero, una maglietta, un libro, e lo fa o attraverso esercenti italiani che pagano un’intermediazione fatturata all’estero o direttamente con una fattura lussemburghese. Ma perché non deve pagare almeno l’Iva all’Italia, così come accade alla libreria sotto casa, che proprio per la concorrenza di Amazon sta chiudendo? I grandi gruppi del web non fanno neanche mistero di avere conti offshore, perché ancora si ragiona verso di loro come accadeva agli albori di Internet, 25 anni fa, concedendo che possano scegliere il Paese dove pagare le tasse, pur operando in tanti altri. Ma se un ingegnere italiano dice di possedere un conto offshore, l’indomani si trova la finanza sotto casa e va dritto in galera. E perché loro no?

Quindi come regolarsi? La web-tax, in questa ottica, rischia di essere solo una goccia nel mare, una micro-tassa rispetto a chi paga al fisco tutto, Iva e imposte dirette.

Intanto è un bene che il dibattito si sia avviato, ma io ritengo che l’obiettivo di questi vertici, già di Tallinn, dovrebbe essere quello di affermare l’obbligatorietà della «stabile organizzazione» nel paese dove fai business: non importa se hai solo uno o due dipendenti in Italia, tutti gli affari che fai nel nostro Paese – che fatturino 100 milioni o un miliardo – devono pagare le relative tasse qui. Almeno le imposte indirette, l’Iva, come tutti gli altri. Il calcolo è che questo settore erode ogni anno al nostro erario circa 32 miliardi di base imponibile, pari a 5 miliardi di gettito fresco solo considerando l’Iva. Poi, quanto alla tassazione diretta, si può fare come con tutte le altre multinazionali: ragionare insieme in base alle loro diverse forme. Google in questo senso è un esempio virtuoso, perché ha accettato di basare la sua stabile organizzazione in Italia per le attività che svolge qui. E gli altri?

Già i soli cinque miliardi di Iva in effetti fanno una bella porzione di legge di Bilancio.

Certo, ma a mio parere il problema che dobbiamo porre a questi colossi è ancora più generale. Siamo nell’era dell’Internet of things, di blockchain da un lato e intelligenza artificiale dall’altro, le app e il digital payment cambiano tutto. Dobbiamo aprire un dibattito sulla portabilità dei dati sensibili, perché l’oro vero di queste multinazionali sono le nostre informazioni personali. Io vorrei potermi portare i miei dati dappertutto, in un cloud: se un giorno il manifesto aprirà il suo, voglio poter togliere tutti i miei dati dal cloud di Apple e trasferirli in quello del vostro giornale. Oggi, al contrario, le multinazionali del web tendono a tenere i nostri dati sensibili per sé, a non cederli.

Un enorme problema per la democrazia, per la sicurezza.

Esatto, infatti ritengo che sia necessario anche creare dei cloud pubblici, dove siano conservati con sicurezza i miei dati di paziente, di contribuente, di padre o di figlio, i miei rapporti con la motorizzazione e così via. Un luogo, un pezzo della pubblica amministrazione, che assicuri che i miei dati siano gestiti dalla Repubblica italiana: una garanzia per me, ma anche una esigenza per la sicurezza e l’intelligence, in questi tempi. Per questo ritengo che oggi il sistema Spid della Pubblica amministrazione non funzioni e non vada bene: i dati sensibili non devono essere messi in mano ai privati.