«Dobbiamo far pagare le tasse ai colossi del web: non solo per un problema di giustizia e per tutelare le aziende concorrenti, ma anche per poter abbassare la pressione fiscale sugli italiani». Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio della Camera, Pd, lavora da almeno cinque anni sulla web tax, e finalmente ieri se ne è parlato anche al G7 economico di Bari. Ha presentato un emendamento alla «manovrina», che però – se approvato – rappresenterebbe intanto solo un primo invito a farsi avanti, indirizzato a tutte le multinazionali che operano in Italia, da Amazon a Airbnb, da Booking.com a Flixbus: «Fate come Google – dice – che ha deciso di essere italiana. Chi deciderà di non esserlo, potrebbe presto finire nel mirino di Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate».

Il recente accordo chiuso da Google con il fisco italiano, per 306 milioni di euro, ha cambiato la percezione del problema?

Google, come anche Facebook, ha cambiato strategia e ha deciso di riconoscere la propra «stabile organizzazione» in Italia, con tutti gli oneri che ne conseguono. Il mio emendamento ha una formulazione volutamente soft, per aprire una discussione: chiediamo alle altre multinazionali che operano in Italia di dichiarare volontariamente la loro «stabile organizzazione» nel nostro Paese. Pagherebbero così l’Iva, l’Ires, come tutti i loro concorrenti, quelli dell’economia considerata «tradizionale».

Una norma che viene definita «transitoria». Ma poi in legge di Bilancio, a fine anno, finalmente pensate a una tassa strutturale, obbligatoria?

Perché venga approvata ci vuole intanto la volontà politica, i numeri, e io confido che i miei colleghi parlamentari la appoggino. Per me si potrebbe rendere anche un po’ più rigida subito, con la «manovrina», o aspettare poi la legge di Bilancio. Quello che comunque è bene capire, è che se non sarà adesso, in ogni caso le multinazionali del web prima o poi pagheranno. Lo dimostrano le inchieste degli ultimi anni, il lavoro del procuratore di Milano Francesco Greco, della Guardia di Finanza, dell’Agenzia delle Entrate. Lo dimostra il fatto che alcuni gruppi hanno già patteggiato e pagato. Capitoli che ovviamente non riguardano me in quanto parlamentare: io sto sollecitando una norma che permetta a queste aziende di mettersi in regola.

Ma tassare le multinazionali del web quanto potrebbe rendere al fisco italiano?

Secondo le nostre stime, l’imponibile complessivo eroso è pari a circa 32 miliardi di euro. Se passasse già adesso l’emendamento in versione soft, io calcolo che si potrebbe garantire circa 1 miliardo di gettito annuo. Se invece rendessimo strutturale la tassazione, ci ritroveremmo in cassa intorno ai 4-5 miliardi.

Un bel «tesoretto». Su quali voci lo investireste?

Come ho scritto nell’emendamento, non meno di 100 milioni di euro potrebbero andare al Fondo per la non autosufficienza e il resto al Fondo per la riduzione della pressione fiscale. Che per me significa soprattutto abbassamento delle tasse sul lavoro, ma poi comunque non sarei io da solo a decidere.

Sono state anche le aziende concorrenti a sollecitare questa nuova tassazione?

Non si tratta di «nuove tasse», come qualcuno dice. Ma dell’estensione della tassazione che tutti noi già paghiamo, come contribuenti italiani, ai giganti del web. Alle audizioni che ho voluto tenere sul tema è emersa la contrapposizione netta tra due differenti «famiglie», i «digitali» contro i «tradizionali». Airbnb e Booking.com contro Federalberghi, gli autotrasportatori contro Flixbus; Sisal e Snai contro i giochi on line; Euronics e Mediaworld contro Amazon.

E che idea si è fatto?

Penso che tutto sia ormai «economia digitale», e che la catena di produzione del valore è stata rivoluzionata dal web, come era accaduto con i telai o le macchine a vapore per il primo capitalismo industriale. Prendiamo ad esempio Airbnb: con soli 3 mila dipendenti ha già un valore di 30 miliardi, contro la concorrente Marriott – 4 mila alberghi tradizionali, centinaia di migliaia di dipendenti – che vale 16-18 miliardi. La politica deve imporre le regole, altrimenti sappiamo già chi vince e chi perde. E sarà svantaggiato chi ha dipendenti, stabilimenti, chi paga le tasse, contro chi invece non le paga.

Già nel 2013 aveva tentato di introdurre una web tax, ma poi fu bloccato da Renzi: lui parlò di «tassa sull’innovazione».

Con Renzi ho litigato tanto su questa questione (sorride, ndr) e adesso, ne sono certo, ho convinto anche lui.