Non lo vedremo seduto su una panchina sotto una cascata di fiori, a spegnere le candeline del compleanno circondato dai compagni, nelle prossime repliche de La gioia, a Roma, a Milano… Bobò, il piccolo vecchio uomo dal sorriso infantile che da più di vent’anni era diventato il cardine del teatro di Pippo Delbono non c’è più, non ci sarà più. È volato via il primo giorno di febbraio, per una broncopolmonite, con il passo incerto e lieve che aveva sulla scena. E mi sorprendo a chiedermi con quali gesti l’avrebbe raccontato, lui che aveva il dono di condensare in un fulminante movimento delle mani quello che gli era impossibile dire con le parole.Ma sembra impossibile in questo momento pensare la sua assenza. Sembrava inscalfibile Bobò, a dispetto degli anni, erano ormai più di ottanta.

E SEBBENE potesse apparire il paradigma della fragilità della condizione umana. Sordomuto, analfabeta, l’etichetta clinica di microcefalo che l’aveva confinato per più di quarant’anni nel manicomio di Aversa. Dove Delbono, nel momento più buio di una sua malattia, si era trovato per caso a condurre un laboratorio teatrale. Di quel loro primo incontro resta una traccia nelle immagini sbiadite di un video amatoriale che poi Delbono aveva montato all’interno del film Grido, quasi stridenti in mezzo ai colori chiassosi della Napoli in cui sono immerse.

Danza con le mani che tracciano misteriose scie nell’aria, il piccolo uomo, stando soltanto seduto su una sedia. Le intreccia con quelle di una ragazza seduta accanto a lui. E poi ancora è un ballo in mezzo a tutti quegli altri uomini e donne, le grida dei matti, nello squallore dello stanzone. Siamo agli albori di una nuova nascita a un mondo che Bobò non aveva mai conosciuto. Dove tutto è scoperta. «Sono uscito da qui con Bobò per proteggerlo, per salvarlo», dice in quel momento Delbono. «O forse per essere protetto, per essere salvato».

INDIMENTICABILE per lo spettatore di allora era stato il suo primo apparire sulla scena, tenuto per mano da Delbono. E così vicini, l’uno sembrava ancora più grosso e l’altro più minuto e fragile. Lo spettacolo si chiamava Barboni, per l’artista ligure era come un nuovo inizio. Andavano a sedersi l’uno accanto all’altro, su una panca al fondo della scena. Si lanciavano uno sguardo, come a interrogarsi. Cosa facciamo? Cosa siamo qui a fare? Fuori campo, qualcuno pronunciava le loro battute. Con lo stesso ritmo lento con cui i due in scena andavano moltiplicando piccole gag. Frammenti di un dialogo di Aspettando Godot, forse un po’ rimaneggiato. E in quelle due figurette era inevitabile proiettare i «barboni» Vladimir e Estragon della pièce beckettiana. E che emozione sarebbe stato poi vederli riapparire dopo tanto tempo sulla panchina da giardinetti de La gioia. Intenti a riannodare, in pubblico, i fili di un rapporto segreto, quella loro complicità di sguardi, una certa sprezzatura come a non prendersi troppo sul serio.

Da quel momento sarebbe stato sempre presente, Bobò, in tutte le creazioni di Pippo Delbono, senza escludere i non sempre ben disposti palcoscenici dell’opera lirica. Dovunque portando quella sua dote misteriosa grazie alla quale aveva sviluppato quello stesso modo di essere presente sulla scena raggiunto dai maestri dell’Oriente dopo molti anni di training, di minuzioso lavoro tecnico. Ormai impresso nel corpo. Quasi che la sua condizione di emarginato rinchiuso per quarantasei anni in un luogo di follia, muto e sordo ma lucido, bisognoso di comunicare con gli altri, l’avesse forzato a sviluppare inconsapevolmente una sorta di tecnica drammatica primordiale. Che il teatro era stato capace di riconoscere.