«Non mi spezzeranno perché il desiderio di libertà, la libertà del popolo irlandese, è nel mio cuore. Il nostro giorno verrà. Finché la mente rimane libera, la vittoria è certa». Alla terza settimana di sciopero della fame, così scriveva dalla prigione il 17 marzo 1981 Robert Gerard Sands, detto Bobby, nato il 9 marzo 1954 a Rathcoole, sobborgo settentrionale di Belfast. La famiglia di Bobby è cattolica nell’Irlanda del Nord abitata in prevalenza da protestanti, eredi di coloni emigrati dalla Gran Bretagna. Una famiglia operaia nella regione a maggior insediamento industriale dell’Isola.

Come sempre, la questione non è solamente a carattere religioso, ma altresì economica e sociale, con gravi cascami culturali e discriminatori permanenti: «una casa fredda per i cattolici», come ebbe a definirla il barone unionista e conservatore David Trimble. Così fredda che a 18 anni, nel 1972, Sands aderisce al Pira (Provisional Irish Republican Army) e diviene membro del Primo Battaglione della Brigata Belfast: «avevo visto troppe case distrutte, padri e figli arrestati, amici ammazzati; troppi gas, sparatorie e sangue della nostra gente…», ma viene arrestato presto e rimane in carcere fino al 1976.

Clausura h24
La Provisional è la componente più forte dell’Ira nonché la più profondamente religiosa e di sinistra. Bobby esce di prigione e torna a vivere in famiglia, a Twinbrook, area sudoccidentale di Belfast, dove la comunità vede in questo ragazzo ventiduenne già un attivista di riferimento. Bobby matura una coscienza rivoluzionaria, fantastica una repubblica socialista, fa un pupo con Geraldine, stabilisce legami di fede e d’acciaio coi compagni di lotta e d’avventura. Neppure un anno dopo, l’auto in cui viaggiavano Bobby e altri quattro militanti viene fermata: a bordo trovano una pistola, Bobby è condannato a 14 anni di detenzione e rinchiuso nel carcere di Long Kesh, più esattamente nella parte nuova, i famigerati Blocchi H, otto costruzioni a forma di H edificate appositamente per gli oppositori incalliti della Corona britannica. Un inferno per i combattenti costretti alla clausura forzata giorno e notte, al pari della prigione femminile di Armagh per le combattenti: «cammino avanti e indietro per evitare che il freddo mi congeli le ossa». Bobby si fa giornalista, poeta, scrittore. Scrive su pezzi di carta igienica e cartine per sigarette, quando non scrive nasconde nel corpo la penna agli aguzzini. Le sue creazioni e corrispondenze escono dalle sbarre sui mezzi incerti che i detenuti sanno prodigiosamente inventare per essere pubblicate dall’organo repubblicano An Phoblacht-Republican News con lo pseudonimo Marcella. E molte di quelle esternazioni dell’anima sono oggi preziosamente incarnate nel volume Scritti dal carcere, poesie e prose (a cura di Riccardo Michelucci, Enrico Terrinoni, prefazione di Gerry Adams, ed. Paginauno, pp. 270, euro 18).

Escrementi sui muri
Senza lotta non c’è vita, il conflitto è ragione e strumento di sopravvivenza. Ovunque e sempre. Anche in carcere. I detenuti dell’Ira promuovono proteste a getto continuo per ottenere lo status di prigionieri politici, contro i limiti imposti dalle comuni regole di detenzione: iniziano con la protesta delle coperte (blanket protest), ossia il rifiuto di indossare l’uniforme carceraria vestendosi di solo plaid, proseguono con la protesta dello sporco (dirty protest), ossia spalmando di escrementi i muri delle gabbie e rovesciando l’urina fuori delle porte per esprimere la rabbia non solo contro la durezza dei guardiani che picchiano selvaggiamente i reclusi quando escono dalle celle per andare in bagno, ma anche contro le punte estreme della deprivazione sensoriale: «i secondini hanno chiuso tutte le finestre con lastre di metallo… un’ulteriore tortura, chiudere fuori l’essenza della vita, la natura». E giungono al primo sciopero della fame il 27 ottobre 1980: Bobby Sands viene eletto dai suoi compagni ufficiale comandante (Officer Commanding) dei prigionieri Ira a Long Kesh: sette di loro iniziano il digiuno che si protrae fino al 18 dicembre, quando il giovane Sean McKenna entra in coma ed il governo di sua maestà fa generiche promesse di concessione, che poi rimangerà appena terminato lo sciopero: «viviamo in tempi moderni, si dice…/ma a guardarmi attorno, vedo soltanto/ moderne torture, dolore, ipocrisia…/ burocrati, speculatori e presidenti…/ si appuntano in faccia i loro sporchi sorrisi…/ il prigioniero solitario griderà dalla sua tomba».

La notorietà di Sands è alle stelle, viene candidato alle elezioni suppletive del 9 aprile 1981 per la morte di un parlamentare irlandese ed eletto contro il rappresentante unionista Harry West. Ma Bobby è in sciopero della fame da quaranta giorni, sta male, le televisioni del mondo intero seguono il dramma, uomini e donne di buona volontà inorridiscono per la barbarie del governo britannico guidato dalla lady di ferro Margaret Thatcher. Il papa invia al detenuto in fin di vita una croce d’oro cristiana che l’eroe-martire stringe fra le mani spirando il 5 maggio. Mentre Londra lancia anatemi alla Chiesa Cattolica colpevole di aver legittimato un «terrorista», mentre centomila nazionalisti irlandesi accompagnano il feretro al cimitero di Milltown, mentre altri nove militanti perdono la vita dietro le sbarre nei mesi successivi. Generando l’esplosione spontanea di rivolte massive, moltiplicando robustezza vigorosa e adesione popolare alla lotta indipendentista.

«Bobby era un internazionalista», dice Gerry Adams, «ha letto di altre lotte, dell’apartheid in Sudafrica, dei palestinesi in guerra per una Patria…, le sue parole risuonano ancora oggi nelle teste di molti giovani, vengono ripetute sui social media». Come tanti combattenti per la libertà, Bobby Sands non amava lo scontro in quanto tale, le armi non erano un feticcio, aveva anzi un’intimità amabile («i fiori sono fanciulle gentili, emanano una bellezza mozzafiato e un profumo che manda in estasi anche gli uccelli…»), ma riteneva che l’uso della forza fosse lo strumento necessario contro l’imperialismo inglese per riconquistare la dignità perduta e guardare a un futuro finalmente solare: «le risate dei nostri figli saranno la nostra vendetta».

La sua morte incendiò l’animo di molti nel Pianeta: dallo sciopero dei portuali statunitensi all’invasione dei consolati britannici, dalla salsa di pomodoro lanciata sulla regina Elisabetta alle solide manifestazioni diffuse. Chi scrive era a Milano, marciammo in migliaia per onorarlo ed esprimere l’ira sacrosanta verso la nera Thatcher, la sua crociata contro i lavoratori, la repressione violenta del malcontento economico, la propensione reazionaria complessiva che avrebbe favorito -insieme a Reagan- il liberismo sfrontato e incontrollato nel Globo per i decenni avvenire; in quei giorni Bobby era per noi l’emblema della resistenza alla ferocia maligna del potere fascistoide nelle sue multiformi espressioni. Perciò nei cuori e nell’aria vibrava un urlo collettivo: siamo tutti Bobby Sands.