Sono passati quarant’anni dalla morte assurda di Robert Nesta Marley, per un melanoma sotto l’unghia del piede che avrebbe potuto esser facilmente curato se il cantante non avesse rifiutato troppo a lungo le cure per restare fedele alle regole del culto rastafariano. Aveva 36 anni, cantava e incideva da quando ne aveva 17 ed era all’apice di un successo internazionale oggi difficilmente immaginabile, la prima vera grande star internazionale proveniente dal Terzo Mondo, a tutt’oggi non eguagliata da nessuno. Con i decenni Bob Marley è diventato un’icona, un manifestino da centro sociale, il Che Guevara della musica. Non è del tutto ingiustificato, in quegli anni già segnati dal riflusso dell’onda ribelle del ventennio precedente Marley e il suo reggae fortemente politicizzato avevano raccolto la bandiera di una musica che militava attivamente contro il razzismo e contro l’ingiustizia sociale. Ma per quanto giustificata l’immagine di Bob Marley come «Natty Dread» il mitico guerriero nero antirazzista, è anche limitata e fuorviante. Marley era prima di tutto un musicista eccezionale e la forza del reggae era solo in piccola parte nel messaggio: del resto a portare quella musica sconosciuta in Europa erano stati nel 1969 gli skinheads, non i movimenti giovanili di sinistra.

NELLA SECONDA METÀ DEI ’70 il reggae ha influenzato e ravvivato con la forza di un vento nuovo l’intero mondo della musica. L’impatto della musica giamaicana, e in fondo anche la sua più reale valenza implicitamente politica, stava tutta nel suo essere musica popolare, nata nel ghetto, certo con l’ambizione di conquistare il mercato però non dal mercato, dunque originale, nuova, vitale, capace di smuovere i generi musicali diventati ormai monumenti a se stessi. Come il blues del Delta o del Texas, come il jazz di New Orleans.

LA SUPERSTAR Bob Marley ha portato il reggae ovunque, ne è stato il campione e il profeta, curandosi anche di addolcirlo un po’ e di venarlo di rock per renderlo più appetibile alle orecchie dei giovani bianchi d’oltreoceano e d’America. Ma, per quanto molto belle siano alcune delle canzoni notissime che ha scritto negli anni dell’immenso successo mondiale, il meglio della sua produzione è precedente. Sono le incisioni con gli Wailers originali: lo stesso Marley, Bunny Wailer, l’ultimo sopravvissuto scomparso due mesi fa, figlio del secondo marito di sua madre, una sorella in comune, Peter Tosh, ucciso nel 1987 in una rapina guidata da un ex detenuto che Tosh aveva sino a quel momento protetto e cercato di aiutare.

NELL’ISOLA GLI WAILERS originali erano già famosi dal 1964, un trio vocale come ne spuntavano a decine nei ghetti della Giamaica, molto ispirato dagli Impressions di Curtis Mayfield ma con in più una linea di basso destinata a prendere sempre più il sopravvento. Come succede con tutta la musica davvero popolare, è però impossibile attribuire al singolo autore, o anche solo ai musicisti, il processo creativo di cui Marley è stato apice e vessillo. Ci hanno messo mano i cantanti, i grandissimi strumentisti dell’epoca ska come Don Drummond o Roland Alphonso, poi quelli che hanno innovato la sezione ritmica più di chiunque altro nel rocksteady e poi nel reggae, i grandi produttori, come Sir Coxsone Dodd, Leslie Kong e Lee Perry, che si combattevano a colpi di dischi ma spesso anche di pistola, il pubblico, indistinguibile dai muscisiti.
Bob Marley, padre inglese con ascendenze ebraico-siriane, madre nera, nato in campagna ma cresciuto dai 12 anni in poi a Trench Town, uno dei tanti ghetti di Kingstown, uno dei peggiori, ha sintetizzato e simboleggiato tutto questo. Non è stato tanto il cantore della rivoluzione quanto il grande musicista moderno del ghetto. Anche quando era osannato sui palchi di tutto il mondo come Natty Dread, non ha mai smesso di essere «il Gong», come ancora oggi lo chiamano in patria, «Tuff Gong», soprannome conquistato a Trench Town, quando la musica degli Wailers era quella dei Rude Boys di Kingston. Forse il miglior modo di ricordare Bob Marley, oggi, sarebbe smettere di farne un poster e restituirlo alla sua realtà: il ghetto e la musica. La musica del ghetto.