Murder Most Foul è un lamento funebre per Kennedy e per l’America che incarnava, riesumato da Bob Dylan nel momento in cui la sua America diventa il paese più infetto del pianeta. Guidato dal suono come nel pianto rituale, dalla ripetizione ossessiva di una stessa frase musicale elementare e profonda, e dalle parole come nei suoi brani più classici – dalla rima come in Only a Pawn in their Game, dall’anafora come in A Hard Rain’s a-Gonna Fall – e intriso di allusioni e richiami intertestuali che daranno lavoro per anni agli specialisti e agli esegeti, è una storia di morte, caduta, rimpianto e lutto che aiuta a capire sia i nostri tempi, sia il tragitto dello stesso Bob Dylan. A caldo, si può solo semplificare e tracciare qualche primo, fragile e inadeguato sentiero di senso tra i molti possibili. Il Kennedy di Dylan è più un simbolo universale che l’imperfetto personaggio storico assai più screziato che era, e la sua morte è più di un assassinio politico. «Hanno fatto saltare la testa del re», canta: alle origini degli Stati uniti, la decapitazione del re era un simbolo ambiguo: da un lato, la rivoluzione; dall’altro, però, la perdita del centro, la decapitazione del significato e dell’ordine, la perdita di un padre. Il titolo è una citazione dell’Amleto, storia di un regicidio e del fantasma di un padre.

Dylan evoca anche Macbeth, altro regicidio; e cita («è un buon giorno per morire») Crazy Horse, simbolo regale di un’altra America. Poi, come in un’allucinazione lisergica, rivede la scena dell’assassinio «come un sacrificio umano». Gli assassini smembrano il suo corpo e se lo spartiscono, come i cacciatori che divorano la preda per impadronirsi dell’anima – ma non la trovano, forse è sfuggita da qualche parte – o forse non c’era già più? «L’anima di una nazione è strappata via e sta cominciando lentamente a marcire». Come un re mitologico, Kennedy riassume in sé il destino della sua terra; la sua morte è come la morte d’Artù nell’epica cavalleresca (non si chiamava Camelot il mondo dei Kennedy?).

COME REAGISCE la sua terra alla morte del suo Re? Dopo la morte di Kennedy arrivano i Beatles, che le terranno la mano come coi bambini che hanno paura del buio e si divertono a scivolare sui mancorrenti. La tragedia non aiuta l’America a diventare adulta; la spinge piuttosto a rifugiarsi in un’adolescenza illusoria e permanente. È l’epoca dell’Acquario: i giorni di pace e amore di Woodstock si evolveranno nella follia insanguinata di Altamont (come la casa nella valle che si trasforma nell’oscura prigione, alla fine di Hard Rain).

FORSE per questo Dylan smette di sentirsi parte di quel tempo: abbandona le speranze di un folk revival che era comunque parte dell’aura dell’America di Kennedy, ma sceglie di non partecipare neppure alla celebrazione di Woodstock. Era smarrito anche lui, «with no direction home»: è lui il «blackface singer», il cantore con la faccia dipinta di nero come nel minstrel show (con cui si identifica espressamente in Love and Theft), il «clown con la faccia imbiancata» nella Rolling Thunder Review, in un’America di maschere, travestimenti, inganni dove lui stesso ha vagato per decenni di mutamenti alla ricerca di se stesso. Altro che età dell’Acquario – «è l’età dell’Anticristo che sta arrivando». «Fede, speranza e carità sono morte», dove con tanti saluti a Charlie (chi è? Siamo entrati in territorio blues, forse è il Mr. Charlie che per gli schiavi designava il padrone, e per i neri da sempre designa noi bianchi e i nostri inganni? ) e con tanti saluti allo zio Sam ripetiamo le ultime parole di Rhett Butler in Via col Vento: «francamente, me ne frego».

Altro che sogno: «Viviamo in un incubo su Elm Street», come nel film horror di Wes Craven. Ma Elm Street (Deep Ellum per i bluesmen, come ci ricorda subito dopo) è un quartiere di Dallas, un ghetto, una giungla, il lato oscuro di quella giornata di sole novembrina.

DI QUI DYLAN parte per un’immersione nella memoria, una fantasmagoria di allusioni e riferimenti che ci vorrebbe una vita a districarla, alla ricerca forse di dov’era quell’anima smarrita. Forse in un’America dove le parole dello spiritual che cercava libertà dalla schiavitù (Freedom, oh freedom) si evolvono in quelle di Roosevelt e del New Deal sulla «libertà dal bisogno» («freedom from want») del New Deal di Roosevelt (citato fin dall’inizio: il 23 novembre 1963 è «un giorno che vivrà in infamia» come l’8 dicembre 1942 di Pearl Harbor)? O forse nell’America dei radio days, della sua stessa adolescenza, delle sue radici musicali – rock (Little Richard), rockabilly (Everly Brothers), country (Patsy C line), «folk» (Kingston Trio), l’America di Elvis trasgressiva (One Night of Sin) e misteriosa (Mystery Train) – fino al suo simbolo più puro di bellezza e innocenza, Marilyn Monroe?

Ma non basta. Anche quell’America era intrisa di pericolo. La piccola Susie dormiva inconsapevole, Miss Lizzy aveva il capogiro, Tom Dooley è morto impiccato, i cadaveri imbiancati giacevano nell’ospedale di St. James e il più grande successo di Patsy Cline era Crazy, folle. I grandi comici – Harold Lloyd, Buster Keaton, Bugsy Siegel – stanno nello stesso mazzo col bandito sociale Pretty Boy Floyd (che però rimanda a un altro antenato, Woody Guthrie).

PER QUESTO, Dylan cerca altrove. Mi viene in mente che Murder Most Foul è anche il titolo di un romanzo di Agatha Christie. Ogni assassinio è infame, la morte del Re sta per ogni morte. Non credo (ma non si può mai sapere) che Dylan conoscesse uno spiritual che l’antropologo Bruce Jackson registrò negli anni ’60 in un campo di lavori forzati del Texas. «Vi voglio parlare di un giorno doloroso», comincia la voce solista: «molto tempo fa, quando Lo spingevano a frustate su per la collina, con la croce sulle spalle…» E poi: «Vi voglio parlare di un altro giorno, un giorno che non dimenticherete, quando l’Uomo passava lungo la strada in una lunga macchina nera, e tutti piangevano e gridavano disperati, il presidente è morto, un grand’uomo è scomparso». Ma poi interviene un’altra voce: era lo stesso giorno in cui assassinarono il presidente, una donna era sul letto di morte, e i figli piangevano e gridavano, lei li guarda e dice: Signore, «take me on through», aiutami a morire. È solo nella coscienza afroamericana che la morte di Kennedy, la morte di Cristo e la morte di una povera donna qualsiasi sono la stessa morte e chiedono solo pianto e aiuto.

È A QUESTA coscienza nera che Dylan chiede aiuto per elaborare il lutto, come ha chiesto aiuto per rinnovare la sua vena creativa affondando le radici nel blues. Nelle ultime strofe, prevalgono le voci nere, Charlie Parker e Miles Davis, Nat King Cole eLittle Richard, Ella Fitzgerald e Jelly Roll Morton… Non ci sono solo queste, ma sono loro a dare il tono e il colore. Chissà se è ancora vero che saranno i discendenti degli schiavi a salvare l’anima dell’America. Ha citato Rhett Butler e Via col vento; gli ultimi versi tornano, nella modalità criptica e ambigua che è da sempre il suo segno, su quell’altra tragedia di cui l’America ha appreso la lezione solo imperfettamente, se mai l’ha appresa: la Guerra Civile. L’ultima invocazione al disc jockey è: «suonami Marching through Georgia» e poi «suonami The Blood Stained Banner». Il canto di guerra del Nord vincitore, il canto del Sud sconfitto. Ma i simboli possono cambiare di senso: dopo quel giorno di novembre, la «bandiera insanguinata» è il vessillo macchiato di un paese tutto sconfitto e per sempre ferito che chiede ancora «take me on through», aiutami a superare questo momento.