Se la campagna anti corruzione del presidente Xi Jinping aveva annunciato bordate sia contro le «tigri» sia contro le «mosche» c’è da chiedersi quale sarà il verdetto nel processo contro il «leone» Bo Xilai. Ieri è cominciato il procedimento a carico dell’ex leader del Partito di Chongqing, accusato di corruzione, tangenti e abuso di potere. Le sedute del tribunale continueranno oggi e termineranno tra due settimane, quando conosceremo la sentenza: Bo Xilai rischia la pena di morte, anche se i bene informati hanno già annunciato una condanna a quindici o vent’anni di reclusione.

Ci si aspettava una prima giornata di processo diversa, presso la Corte di Jinan, nello Shandong, Cina orientale. In una stanza con la presenza di diciannove giornalisti, tutti rigorosamente cinesi e obbligati a riportare solo quanto veniva diffuso dall’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, si pensava che Bo Xilai avrebbe ripercorso le orme della moglie, finendo per ammettere e confessare tutti i crimini a lui imputati. Invece Bo Xilai, con il carisma che l’ha sempre contraddistinto in tutta la carriera politica, ha risposto colpo su colpo alle accuse, definendo «risibili» le frasi contro di lui della moglie, etichettando come «cane pazzo, che si è venduto l’anima» uno degli uomini d’affari che lo accusava di corruzione, negando ogni coinvolgimento nella creazione di un tesoro miliardario che, secondo la moglie Gu Kailai, sarebbe servito a fare studiare il figlio, Bo Guagua, all’estero.

Un comportamento molto diverso dai soliti che siamo abituati a vedere in Cina nelle aule di tribunale e che ha ricordato l’altro grande processo della Repubblica Popolare cinese, celebrato nel 1980 contro la Banda dei Quattro. Allora a difendersi con i denti fu la seconda moglie di Mao Zedong, Jiang Qing. Oggi tocca a Bo Xilai.

E proprio il filo rosso che unisce Bo Xilai a Mao Zedong è all’origine di questo processo, che segue di un anno e mezzo uno scandalo politico capace di scrutare nel cuore del potere politico in Cina, come mai era capitato. La vicenda, che ha visto la caduta senza freni da un certo momento in poi di Bo Xilai, ha permesso infatti per la prima volta di analizzare le fratture all’interno di un Partito Comunista che pare sempre più in difficoltà nell’arginare la contemporaneità sociale cinese.
Bo Xilai, 64 anni, figlio di Bo Yibo, compagno di Mao e per questo uno degli «Otto Immortali» della Rivoluzione Comunista, aveva via via scalato le posizioni politiche di rilievo: sindaco a Dalian, ministro del commercio (e uno dei negoziatori dell’ingresso della Cina nel Wto). A quel punto anziché essere avvicinato al luogo che pensava gli toccasse di diritto, ovvero Pechino, Bo Xilai viene mandato a Chongqing, un’amena cittadina nel sud cinese, lontano dai luoghi che contano. Ma proprio lì Bo Xilai ha costruito il suo straordinario successo.

Affabile con i media, specie quelli occidentali, ottenne visibilità per la sua campagna nota come «canta il rosso, picchia il nero». Da un lato recuperò tutta la retorica maoista, attraverso la spedizione degli studenti a imparare dai contadini, l’invio di messaggi sui cellulari con celebri frasi del Timoniere. Perfino la televisione locale cambiò la programmazione con trasmissioni che ospitavano canti rossi. Bo Xilai, da un punto di vista propagandistico, fece piombare Chongqing in una «Rivoluzione Culturale ai tempi di Internet». Dal punto di vista politico ed economico, agì da despota incontrastato: utilizzò una spericolata politica economica che fece crescere Chongqing anche del 16 percento, con una bolla immobiliare vertiginosa, che attraverso la costruzione di molti alloggi popolari, gli fece guadagnare un’ottima fama specie tra i ceti meno agiati del paese. Il suo mix di investimenti pubblici e privati, per altro spesso accaparrati a spese di Pechino, crearono quello che venne definito «modello Chongqing».

In realtà, secondo molti osservatori cinesi, Chongqing e Bo Xilai non furono gli unici ad agire in quel modo, ma l’abile capacità di utilizzare i media dimostrata dal principino rosso fece si che quello di Chongqing divenne «il modello». Insieme a questo, scatenò una campagna contro le mafie locali che se ha finito per ripulire molto del malaffare, è stata utilizzata come strategia per eliminare i propri avversari. «Picchiando il nero» (mafia in cinese si dice, he shou, ovvero la mano nera) Bo Xilai ha calpestato anche territori di persone che ben presto sono diventati nemici.

La sua apparente autonomia e la involontaria, forse, investitura a capo della corrente «neomaoista» hanno finito per porre Bo Xilai di fronte al muro del Partito Comunista, preso dalla transizione e determinato a privilegiare quella «gestione collettiva» che l’intraprendenza di Bo Xilai sembrava non prevedere.

Così quando un uomo d’affari britannico venne scoperto morto in un hotel a Chongqing e uno degli artefici della campagna anti mafie, Wang Lijun, fuggì al consolato britannico di Chengdu fu chiaro che per Bo Xilai sarebbero arrivati tempi assai cupi. Caduta rapida, si diceva, perché dopo l’accusa alla moglie per l’omicidio di Heywood (e condannata all’ergastolo) e l’espulsione dal Partito sancita al Diciottesimo Congresso del PCC, Bo Xilai è letteralmente scomparso dalla scena politica. Con lui sono via via crollati altri appartenenti all’ala «neomaoista», da non confondere con quella galassia di intellettuali che solitamente vengono definiti come appartenenti alla «nuova sinistra», anche se proprio in occasione del processo di Bo le manifestazioni a suo sostegno portano a credere che non tutto sia stato dimenticato.

Non a caso, del resto, proprio il presidente XI Jinping sembra aver voluto recuperare quell’ala sinistra del Partito, nazionalista e ideologizzata, che proprio con la caduta di Bo Xilai sembrava stroncata.

Al di là della sentenza, dunque, ci sarà da capire se il comportamento da «leone» di Bo Xilai è frutto di accordi già presi, o vuole essere un nuovo e incalzante ritorno sulla scena politica dei «neomaoisti». Bo Xilai – comunque vada – ha chiuso la sua carriera politica ma i suoi alleati potrebbero trovare nuova linfa di fronte all’ex leader che nega ogni accusa di corruzione e rivendica la propria carriera politica come etica e giusta.