Il dibattito a Las Vegas dei candidati democratici in corsa per le primarie del loro partito è stato il più animato e combattuto finora. Per mesi il partito democratico aveva chiesto ai suoi candidati di presentarsi come un fronte unito per battere Trump, ma non è questo che abbiamo visto in Nevada, dove sono volati i coltelli.

I riflettori erano tutti per Michael Bloomberg, ex sindaco di New York e multi-miliardario che ha deciso di candidarsi saltando le prime quattro tornate elettorali per partecipare direttamente al super Tuesday che si terrà il 3 marzo in 14 stati.

Bloomberg era al suo primo dibattito: impegnato in una campagna elettorale milionaria, giocata tutta sui social media e con spot elettorali televisivi martellanti, aveva sempre evitato il confronto diretto con i rivali e con i media. E non ne è uscito vincitore.

Quello che doveva essere il deus ex machina del centro moderato, capace di riunificare il partito, è apparso insicuro, vago, fuori tono, scollegato dal mondo reale ma comunque arrogante. Bloomberg in effetti è stato spesso capace di far saltare i nervi a Trump, perché parlano la stessa lingua, quella dei miliardari newyorchesi.

Chiamato al confronto con il resto del mondo l’impressione più forte è quella di qualcuno del tutto disabituato a rispondere a delle domande.

Memorabile la risposta al perché non avesse già presentato la sua dichiarazione dei redditi: «Perché io sono molto ricco, non è facile il processo per il rilascio dei dati. Non posso mica usare Turbotax», ha detto il miliardario citando il sistema per la dichiarazione dei redditi online usata dal 99% degli americani.

A predominare è stata senza dubbio Elizabeth Warren, reduce dalle sconfitte elettorali in Iowa e in New Hampshire. Warren durante il dibattito ha attaccato tutti tranne il socialista Bernie Sanders, ripristinando con lui un mutuo patto di non belligeranza.

La senatrice è apparsa competente, preparata, reattiva, è stata quella che più degli altri ha messo Bloomberg in un angolo per le sue politiche razziste da sindaco di New York e quelle misogine da imprenditore, concludendo che a sfidare Trump non può presentarsi qualcuno con tutti quegli scheletri nell’armadio.

Durante una conferenza stampa che Warren aveva tenuto in New Hampshire il tema principale era stato quello della strategia elettorale, accusata di essere troppo debole. In questo dibattito Warren ha operato un’inversione nei toni, un piglio combattivo senza rinunciare all’etica, come quando ha difeso la rivale Amy Klobuchar dalle accuse alla fine anche un po’ pretestuose di Pete Buttiggieg.

La vera lotta è stata per il centro. Nonostante una performance migliore del solito, Joe Biden è sembrato comunque fuori dai giochi e a contendersi il centro sono stati Klobuchar e Buttiggieg che non si sono risparmiati gli attacchi.

Il primo ha insistito sull’incompetenza del giovane sindaco, proprio in quanto giovane e sindaco e non senatore; il secondo ha replicato sciorinando una visione del futuro e del concetto di «centro» più contemporanea, spostata a sinistra e non terrorizzata dal socialismo, facendo addirittura sorridere Sanders quando ha confermato di essere stato un suo fan, ben prima che esserlo fosse di moda.

Dalla lotta per il centro e dalla presenza di Bloomberg, sceso in campo proprio per contrastarlo, chi ne ha beneficiato di più è stato proprio Sanders che non ha subito il fuoco incrociato di attacchi dovuti alle sue due recenti vittorie e al non avere ancora reso pubblica la sua cartella medica.

Sanders ha dato il massimo come ogni volta che qualcuno lo attacca, difendendo l’idea di socialismo come unico antidoto alle disuguaglianze. Warren gli ha rubato la scena, ma Sanders ne è uscito incolume e pronto a mantenere lo slancio.