A cinquant’anni esatti dalla strage in cui quattordici dimostranti irlandesi per i diritti civili morirono ammazzati dai paracadutisti britannici, la popolazione di (London)Derry ha ripercorso ancora una volta ieri, come ogni anno, l’itinerario di quel fatale corteo nel Bogside, l’area cattolica della città.

In centinaia si sono raccolti davanti al memoriale Bloody Sunday, dove il primo ministro irlandese Micheal Martin ha deposto una corona di fiori per ricordare le vittime cattoliche in quei dieci minuti di fuoco del 30 gennaio 1972, come il ministro degli Esteri Simon Coveney e altri leader politici, tra cui la leader del Sinn Féin Mary Lou McDonald e il leader del nazionalista Sdlp, il Social Democratic and Labour Party, Colum Eastwood.

Dopo una cerimonia religiosa nel corso della quale sono stati letti, come di consueto, tutti i nomi dei morti – tra cui figurano vari adolescenti: chi colpito alle spalle, chi a terra, chi mentre agitava un fazzoletto – il premier irlandese Martin ha privatamente incontrato i familiari delle vittime presso il Museum of Free Derry. E ha commentato l’iniziativa del governo populista ed euroscettico di Boris Johnson, che intende promuovere una legislazione riconciliatoria che ammonta in buona sostanza a un’amnistia, vista anche l’età avanzata dei soldati coinvolti.

«Non credo debbano esserci amnistie per chicchessia, ritengo che si debba andare in fondo con i procedimenti penali e l’applicazione della giustizia» ha detto il taoiseach (tiscech, primo ministro) Martin, echeggiando Michael McKinney, il fratello di William, una delle vittime, che ha ribadito l’opposizione delle famiglie all’idea: «Se realizzeranno le loro proposte, le famiglie della Bloody Sunday le fronteggeranno a viso aperto».

Contro l’amnistia si era espresso anche l’ex leader laburista Jeremy Corbyn, intervenuto sabato pomeriggio: «È oltraggioso che nessuno sia stato mai indagato per la morte di quattordici dimostranti innocenti. È un doppio oltraggio che il governo britannico stia progettando una legislazione che renderebbe un simile sforzo ancora più arduo in futuro».

L’anniversario, che molti in Italia ricordano anche grazie all’omonimo, opinabile inno degli U2, rievoca una delle pagine più nefaste della storia britannica del Novecento, forse la peggiore dei Troubles (disordini, così viene eufemisticamente definita la guerra civile in Irlanda del Nord) e fa da corollario ad altre nefandezze colonial-militari. Non solo per la gravità – altri episodi di violenza da ambo le parti, nazionalista cattolica e unionista protestante hanno fatto registrare altrettante vittime – ma per il prolungato tentativo di occultare la verità da parte di Londra.

Dopo un primo rapporto governativo nel 1972, pieno di menzogne, diffamatorio delle vittime e teso a esonerare i militari da ogni responsabilità, nel 2010 le cinquemila pagine di un’inchiesta durata dodici anni, commissionata da Tony Blair e finita in grembo a David Cameron avevano finalmente stabilito l’ovvio: le vittime erano disarmate, inoffensive e l’ufficiale britannico al comando aveva violato gli ordini. Cameron chiese scusa, ma a oggi nessun militare è mai stato accusato.

Questo passato che non passa rischia di secernere oggi tutta la sua tossicità, anche alla luce delle vicissitudini nordirlandesi dopo i colpi inferti da Brexit alla pace e alla condivisione dei poteri sanciti dal Good Friday Agreement nel 1998. E il ritorno del settarismo si riflette nelle bandiere dello stesso reggimento paracadutisti macchiatosi delle atrocità, fatte sventolare in varie zone protestanti della città.