(VIDEOGAME PER PLAYSTATION 4)

di federico ercole

Bloodborne, l’ultima opera del maestro della perfidia ludica Hidetaka Miyazaki, è qualcosa di terrificante e non come può esserlo un horror, sebbene al genere, con le sue tinte gotiche ma prive di ogni romanticismo, il videogioco faccia riferimento.

Se nei precedenti e macabri lavori del game designer giapponese, Demon’s Souls e Dark Souls, gravi entrambi di un’oscurità maestosa e infusi di un’aura disperata c’è comunque il filtro del fantasy a esorcizzare l’orrore di universi che scivolano verso il vuoto di una sfiancata dannazione senza alcuna possibilità di salvezza, in Bloodborne lo sfacelo è più vicino al mondo di chi gioca e risulta familiare, instaurando una folle conversazione con la psiche, atterrendola con una potenza simile a quella del ricordo di un incubo durante quei brevi istanti di coscienza parziale che precedono il risveglio e in cui tutto ciò che di sordido abbiamo sognato sembra vero e vicino a risucchiarci nella sua malevola spirale. C’è anche il favoloso in questo videogioco in esclusiva per Playstation 4, ma non è quello mitico di draghi e magie, si tratta invece della poco incantevole e orripilante fantasia che anima i quadri di Hyeronimus Bosch, dei quali Bloodborne è una versione interattiva resa ancora più malsana e spietata da contaminazioni lovecraftiane. Qui non c’è nessuna arcana maledizione, come nei “souls”, c’è la Malattia, una pestilenza bestiale che trasforma le architetture austere e germaniche di Yharnam in una cloaca cosmica dove i pochi superstiti agonizzanti di un’umanità sconfitta riversano lacrime di sangue. Attraverso il disco del videogame si va quindi, come mai prima in un’opera elettronica, nella città dolente di dantesca memoria, nell’eterno dolore, tra la perduta gente.

Bisogna quindi avere uno stomaco forte, oltre che i riflessi, il senso strategico e la pazienza a cui ci ha abituato la crudeltà di Miyazaki nei suoi primi capolavori, per giocare Bloodborne, affinchè la sua squilibrata qualità visionaria non finisca per deprimere e appunto terrificare al punto da allontanare. E questo sarebbe un peccato, perché Bloodborne è un opera d’arte che si eleva come una mostruosa Torre di Babele verso l’empireo delle più grandiose invenzioni numeriche, un’esperienza lunga, disturbante e gratificante durante la quale il giocatore non è mai preso per mano con gentilezza nell’illusione di un gradevole passatempo ma viene educato severamente alla sopravvivenza dall’implacabile durezza di uno spietato mentore. Come nei “souls”, di cui comunque Bloodborne è lo psicotico erede spirituale, la difficoltà è estrema e talvolta alcuni ostacoli potrebbero sembrare insormontabili, ma alla fine non lo sono mai così che l’esaltazione ricavata dal superarli è smisurata.

Ci svegliamo, o ci riaddormentiamo, su un putrido letto di un ospedale mentre un uomo dalle orbite bruciate ci fa una trasfusione di sangue sussurrando parole inquietanti a proposito di una notte di caccia. E la caccia ha inizio per le strade della mistica Yharnam, pattugliate da abitanti trasformati in abominazioni ferine, attraverso vie che appaiono come colossali fosse comuni dove sono ammucchiate ovunque bare dimenticate. Ogni nemico ci può uccidere, il Game Over può coglierci alla minima distrazione e questa volta, a differenza dagli altri lavori di Miyazaki, non abbiamo scudi ne’ armature e quindi risulta impossibile usare tattiche difensive; possiamo solo attaccare con armi che sono volutamente brutte e brutali, perversioni letali di scuri, seghe, lance, spade, bastoni. Si possono utilizzare anche una vetusta pistola o un roboante archibugio, armi le cui potenzialità offensive sono comunque ridotte e servono più da deterrente che altro. L’urgenza, di giungere all’utopica alba di questa notte senza fine, è lo stile marziale che premia chi gioca a Bloodborne.

L’architettura del mondo di gioco è “escheriana” e può destare un’iniziale confusione ma è pensata magistralmente tramite ardite connessioni che una volta scoperte tramite un’attenta e sempre perigliosa esplorazione sbloccano impensabili scorciatoie per giungere velocemente alle più micidiali mostruosità che dominano le varie aeree e che una volta eliminate ci apriranno nuove strade. L’unica zona franca del gioco in cui è possibile potenziarsi e organizzare le proprie risorse è il Sogno del Cacciatore, raggiungibile tramite rarissime lanterne magiche.

Sebbene sia possibile finire Bloodborne sconfiggendo solo otto “boss”, ce ne sono molti di più nascosti in vaste zone segrete e trascurarli penalizzerebbe questa profondissima epopea dello squilibrio.

Il design dei mostri è incomparabile per varietà e putrido carisma, ci sono decine di variazioni lupesche, dai cittadini solo vagamente imbestialiti ai “classici” licantropi, insetti abnormi e abominanti che ci contagiano di pazzia con il loro ributtante abbraccio, chimere tentacolate e vaginali, nani meccanizzati, cani rabbiosi e sbavanti, fantasmi urlanti di donne massacrate, neonati dell’incubo, piccole folle di megere artigliate, energumeni deformi armati di mattoni, grossi corvi dalle ali troppo marce per volare, martiri auto-flagellanti risorti in vampiresche sanguisughe, aracnidi di ogni dimensioni, vermi che sembrano tenie ingrassate a tal punto da squarciare il ventre del proprio ospite per muoversi libere e affamate…

Mentre vaghiamo per la meravigliosa quanto orripilante Yharnam, per le sue cattedrali, i castelli, le fogne, le selve e le paludi, i suoni che ascoltiamo sono orchestrati in una geniale e rivoltante cacofonia di biascichii, urla, lamenti, stridii, ululati, recriminazioni, guaiti, pianti. Il suono ferisce le orecchie con la stessa forza sanguinaria della grandguignolesca visione e solo raramente c’è un accenno di musica.

Sorgerà spontaneo, soprattutto al lettore inesperto e curioso, a chi non ha mai giocato un “souls” o a chi vuole trascorrere qualche decina di minuti a vivere colorati e divertenti mondi virtuali, se non sia per un certo masochismo e morbosità che si può godere di un gioco del genere, che sulla comunque sempre discutibile “livella” di Metacritic ha unito pubblico e critica con un punteggio che supera il 90.

Il fatto è che Bloodborne non solo conferma la tetra ma ispirata idea artistica, estetica e filosofica di Hidetaka Miyazaki, un visionario disegnatore e architetto di incubi la cui forza creativa è paragonabile solo ai pittori del lato oscuro della psiche e della vita come Goya, il sopracitato Bosch e il recentemente estinto Giger, ma è un videogame dalle qualità ludiche rarissime che con la sua natura ostica ed ermetica favorisce l’illusione di una grandiosa avventura, alimenta la sensazione esaltante di lottare contro qualcosa di immenso e apparentemente imbattibile per riuscire infine a sconfiggerlo grazie alla propria perseveranza e volontà, ci ricorda e ammonisce che il videogame è una cosa seria dove il gioco non esclude la gravità dei contenuti.

Perché se si considerano gli innumerevoli cadaveri di cui in parte la peste imperversante e in parte le armi della guerra hanno riempito non solo la nostra Germania ma quasi l’intera Europa, dobbiamo riconoscere che le nostre rose si sono trasformate in spine, i nostri gigli in ortiche, i nostri paradisi in cimiteri, e insomma l’intera nostra esistenza in un’immagine della morte”, scrisse il drammaturgo tedesco Johann Christian Hallmann alla fine del 1600. Miyazaki, con la sua sfrenata danza macabra elettronica, rinnova questo pensiero in un presente altrettanto oscuro.