Quando il leader socialista António Costa, nel 2015, decise di non appoggiare la grande coalizione con i conservatori guidati da Pedro Passos Coelho, che avevano appena vinto le elezioni di pochi punti senza però raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento, e cercò invece l’alleanza coi tre maggiori partiti di sinistra radicale del paese, Partito comunista, Verdi e Bloco de Esquerda, dalla sede di quest’ultimo, una palazzina gialla in Rua Da Palma a Lisbona, storica base del Partito Socialista Rivoluzionario, prima occupata abusivamente e poi acquistata nel 2007, un grido di speranza e solidarietà si levò unanime, e fra Praça Martim Moniz e Largo do Intendente, in quell’incastro di strade gentrificate e piene di colori, l’afflato politico riprese vigore. Dopo la congiuntura horribilis, di proteste e lacrime, imposta dalla troika europea nel 2011 – gli anni delle feste nazionali cancellate, delle proteste di piazza, dei licenziamenti di massa – una sostanziosa parte di elettori, una sorta di nuova generazione portoghese si potrebbe dire, cominciò a nutrire nuovamente fiducia nella classe politica, e quella coalizione-gerigonça (letteralmente: accozzaglia) che i detrattori amavano sbeffeggiare, confidando nella sua brevissima durata, prendeva silenziosamente campo e credibilità.

Oggi, a tre anni dall’insediamento di Costa nel palazzo di São Bento, in forza di una logica decisionale che non obbliga, obtorto collo, ogni partito ad appoggiare le decisioni governative e lascia un margine di manovra al dissenso e al dibattito, il Portogallo è un paese che accenna buoni spunti di ripresa.

 

La disoccupazione è scesa di tre punti rispetto al 2015, calando per la prima volta in otto anni sotto al 10% -; il Pil, sebbene il debito pubblico resti assieme a Grecia e Italia uno dei più gravosi fra i paesi europei, aumenta del 2,5%; gli investimenti governativi stanno andando nella direzione di quei settori – specialmente sanità e istruzione – maggiormente colpiti da carenze strutturali importanti.

Il trademark di successo delle politiche del governo Costa si gioca sul terreno della ridistribuzione: non è puntando soltanto sull’aumento del salario minimo o sulla lotta all’evasione fiscale che si tende a raggiungere risultati efficienti quanto mettendo in atto meccanismi di tutela e protezione delle classi più disagiate della scala sociale.

Mosse coraggiose, talvolta azzardate (la riduzione dell’orario lavorativo per i dipendenti pubblici ha scatenato non pochi dissensi), frutto di negoziazioni continue e di un lavoro di cesello estremamente raffinato, da cui dipendono le sorti stesse del governo, che tuttavia non è mai stato tanto popolare.

 

NELLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE del 1 ottobre 2017, in grado di prendere il polso della situazione complessiva dell’elettorato, se si esclude la perdita del 2% di voti del Partito comunista (Pcp), la tenuta delle forze di coalizione – con strabiliante successo proprio del Partito socialista, seguito dal Bloco – ha testimoniato una gerenza salda, per il momento indiscussa.

Le carenze e i deficit del paese, tuttavia, restano ancora molti e il lavoro da fare non manca: se la defiscalizzazione per gli stranieri che trasferiscono la residenza in Portogallo si impone come una delle problematiche più imminenti da districare, il recente crollo del sistema bancario, col fallimento del Banco Espírito Santo e i problemi della maggiore banca pubblica del paese, la Caixa Geral de Depósitos, lascia in eredità alla sfera politica un patrimonio di delicate questioni da mediare, non soltanto con i cittadini o le amministrazioni ma anche col gotha dei massimi vertici a Bruxelles, ora più cauti e ottimisti verso le misure economiche portoghesi – portoghese, e socialista, è anche Mario Centeno, neo-eletto alla presidenza dell’Eurogruppo – ma certo non ignari della condizione di fragilissima stabilità lusitana.

E IL VIAGGIO IN UN PORTOGALLO 2.0, un paese che non fa necessariamente da specchio alla condizione «dorata» della sua capitale attraente e attrattiva – il problema della massificazione turistica a Lisbona, con la conseguente sperequazione economica e lavorativa fortemente sbilanciata a favore del solo settore terziario – passa anche attraverso la palazzina gialla di Rua Da Palma, così come da una piccola stanza al quinto piano dell’Iseg – la Facoltà di Economia che si trova a due passi da São Bento – dove Francisco Louçã, stimato professore e co-fondatore del Bloco, ci accoglie calorosamente: «Il nostro paese non è un Eldorado, né qualcosa che può essere messo a paragone, con delle forzature lapalissiane, con altre realtà europee dove il modello socialista non ha saputo tenere il punto in maniera altrettanto salda: anche noi abbiamo la nostra nutrita serie di sconfitte a cui chinare il capo, come partito politico siamo obbligati a farlo, come coalizione di sinistra ce lo imponiamo. Ma la straordinarietà del caso Bloco deriva proprio da qui, dalla capacità di traslare il patto che abbiamo siglato con l’elettorato in una continua investigazione, una perpetua ricerca di risposte sempre migliori. Anche rischiando, come negli anni della troika, di perdere significativamente consensi».

La virata bloquista, un andamento radicale nel senso etimologico della parola, un vero e proprio discendere alla radice delle problematiche – non si estende soltanto dal nuovo, candido, ufficio in cui si è appena insediato Ricardo Robles, unico consigliere del partito alla camera municipale della capitale, ingegnere civile di 40 anni, con uno sguardo vispo e pragmatico sul futuro della sua città, specialmente collegato al problema abitativo: «La speculazione immobiliare, il caro-affitti causato dal proliferare di alloggi-vacanza, spesso non in regola, come la mancanza di residenze universitarie o le deficienze di collegamenti e infrastrutture fra aree urbane e cinture periferiche, sono soltanto i primi punti cardine della mia lista di obiettivi. Ho in mente una città funzionale, dove il termine gentrificazione non sia per forza sinonimo di perdita di identità, o peggio ancora, di risorse».

 

Il viaggio nel cuore rosso di un paese sull’attenti, poco incline all’esibizionismo ma impegnato in una lunga marcia di battaglie, ha anche i volti di Catarina Martins – portavoce del Bloco – e di Mariana Mortagua – vice-presidente del gruppo parlamentare -: nata nel ’73 la prima, e classe ’86 la seconda, entrambe ci ricevono nelle stanze del Palácio e ripercorrono animosamente quelle che sono state le tappe fondamentali nella storia del partito: gli albori dei primi fermenti – in seguito al referendum sull’aborto del 1998 o alle manifestazioni di pace contro la guerra in Iraq – la caratterizzazione marchiana del movimento come referente ideale in materia di diritti civili, si cominciavano a gettare le basi per quegli argomenti «fastidiosi» che pochi anni più tardi i bloquisti avrebbero gridato ad alta voce nelle aule parlamentari.

I diritti della comunità Lgbt, la procreazione assistita, le leggi sull’immigrazione, tutte tematiche che hanno contraddistinto l’operato del Bloco e su cui sono stati fatti progressi enormi, considerando anche che progressista non era certo la parola migliore per definire l’avvicendarsi dei governi portoghesi fra il 2000 e il 2015: «Abbiamo lavorato strenuamente» – testimonia con fierezza Martins: «Sulle violenze domestiche e coniugali, temi molto sentiti nel nostro paese. Siamo orgogliosi di aver raggiunto alcuni traguardi, come la possibilità di poter condurre investigazioni anche senza esplicita denuncia della vittima. Se in Portogallo, oggi, siamo arrivati alle unioni civili, alla possibilità di adozione da parte di coppie dello stesso sesso, ad una legge sulla gender identity, ci assumiamo buona parte dei meriti e degli sforzi che queste sfide portavano con sé».

E con un tasso di omicidi femminili diminuito della metà negli ultimi due anni, e una percentuale di donne che ricorrono all’aborto letteralmente falciata rispetto alle statistiche del 2007, la spinta riformista del partito sembrano non volersi arrestare: «Due delle nostre priorità, al momento sono la legalizzazione della cannabis, al fine di creare un inquadramento giuridico preciso e combattere il narcotraffico, e una proposta di legge sul tema dell’eutanasia e il testamento biologico. Si tratta di tematiche controverse e delicate, ma non abbiamo timore a farcene rappresentanti perché il tempo, e la fiducia degli elettori, ci hanno dato ragione. È proprio insieme ai diritti delle minoranze, e alle libertà civili, che siamo nati e cresciuti come partito, e non abbiamo certo intenzione di tirarci indietro sul più bello».

E il più bello, nel 2018, è un partito che – ovviamente – con il 10% non avrebbe la forza numerica per governare ma che continua imperterrito le sue rimostranze e rivendica la propria voce politica non soltanto su temi civili ed etici ma anche sulle decisioni economiche, fiscali, in materia di privatizzazioni statali, (di cui dibatte tenacemente con il Partito socialista dal 2015) di welfare state e soprattutto di lavoro.

 

Un partito che come ribadisce Marisa Matias, deputata europea del Bloco e presidente della Delegazione per le relazioni con i paesi del Mashreq: «Sta diventando ogni giorno più trasversale, andando in cerca di nuova linfa per crescere non soltanto nelle aree più urbane, o fra i millennials, stanchi di una politica stantia che sa di compromesso e giochi di palazzo, ma anche nelle aree rurali e in cerca di una rappresentanza coesa». Un partito con un’agenda strutturata e dei punti cardinali su cui non osa discutere, che si interroga costantemente per riempire il gap fra istituzioni e società civile (Matias, a Bruxelles dal 2009, conosce bene lo scollamento del tessuto sociale fra elettorato e attori politici).

UN PARTITO, IL BLOCO DE ESQUERDA che ha tre donne di grande spessore ai suoi vertici – di cui una poco più che trentenne -: donne in scarpe da ginnastica che affaccendate si muovono fra le stanze piene di affreschi del Parlamento, o con il trolley a mano di ritorno da una task-force in Honduras, donne che definiscono il proprio partito come femminista ma che non indugiano ugualmente a sottolineare quanto sforzo ci sia dietro a quella «definizione», quante lotte intraprese e pugni chiusi.

Perché in effetti il Portogallo di strada da fare ne ha ancora molta, e così il Bloco: non c’è un Eldorado né una matrice replicabile per fare da esempio ai tanti paesi europei orfani di un’idea di socialismo integrale.

Nella palazzina di Rua da Palma, in cui è cominciato questo viaggio, c’è però una vividezza – tutta femminile per l’appunto – che traluce tra i manifesti e le brochure di propaganda, c’è una partecipazione e una resistenza che fanno da bloco al disimpegno.

 

*Scatti della fotografa di Prato Agnese Morganti, realizzati a Lisbona nel dicembre 2017