Non era mai accaduto che gli oltre millecinquecento dipendenti della Banca Centrale Europea «scioperassero». E soprattutto che lo facessero nello stesso giorno gli impiegati di Kommerzbank e Deutsche Bank, paralizzando così le attività d’ufficio di tutto il distretto della finanza a Francoforte. È successo ieri. E questa inedita forma di «sciopero sociale» nelle fabbriche di carta delle maggiori istituzioni finanziarie d’Europa è stato l’effetto delle azioni di quasi tremila attivisti raccolti nella coalizione Blockupy Frankfurt.

Un risultato straordinario, cui reti militanti, organizzazioni contro le politiche di austerity e provenienti da diverse città tedesche, ma anche da Spagna, Belgio, Olanda, Danimarca, Francia e Italia hanno lavorato per un anno. Gli effetti si sono visti già nelle prime ore del mattino. Erano le 5.30 quando in corteo non autorizzato i primi manifestanti sono partiti dal campeggio autogestito di Rebstock percorrendo quattro chilometri fino al centro cittadino, aggirando innumerevoli blocchi di polizia, certo meno aggressiva dello scorso anno, ma onnipresente in gran numero.

Giunti, due ore dopo, alle sette, sotto la Eurotower, il grattacielo sede della Bce, si sono disposti in sei differenti blocchi ad altrettanti incroci, strategici per l’accesso agli uffici. Qui l’immagine della Banca Centrale, cioè di uno dei tre vertici della Troika al comando della governance e dei processi di integrazione europea, era quella di un fortino assediato. Prima ancora che dai contestatori, la torre era circondata da un perimetro di transenne antisfondamento e da un robusto schieramento di poliziotti antisommossa, arrivati da tutta la Germania. E mentre alcune banche avevano già prudentemente concesso ai propri dipendenti un giorno di ferie, per gli sparuti impiegati di Mr. Draghi che si affacciavano nei dintorni della Mainzerstrasse non c’era niente da fare. Fermamente, ma cortesemente, venivano invitati a tornarsene a casa.

Inevitabile il nervosismo delle forze di polizia, nonostante numerose mobilitazioni e l’attivazione dell’opinione pubblica avessero garantito, negli ultimi mesi, la formale conquista del diritto a manifestare. C’è stato il provocatorio tentativo di fermare alcuni attivisti, isolandoli e strappandoli ai blocchi, così come quando i manifestanti, soprattutto dei Centri sociali italiani, si sono avvicinati agli sbarramenti premendo con forza su di essi, sono partite piccole cariche condite dall’irrorazione di micidiale spray al peperoncino. Ironicamente, ha fatto da controcanto uno slogan di nuovo conio: «aglio, olio e peperoncino, contro l’austerity e per il reddito».

[do action=”citazione”]Blockupy ha raggiunto un primo obiettivo. Ha portato nella città tedesca la critica dei movimenti alle politiche dell’Unione europea[/do]

Ma, nel complesso, è stata la determinazione dei partecipanti ad avere la meglio e a paralizzare per un giorno nei fatti – altro che «protesta simbolica» – il cuore pulsante della grande finanza europea, trasformando la «Gotham City dell’Euro» in una ghost town popolata di grattacieli vuoti, lampeggianti blu e migliaia di attivisti che sciamavano in cortei liberi e selvaggi.

Conclusa così verso mezzogiorno quella che era stata definita la «prima onda» della protesta, i blocchi si sono sciolti, riarticolati e ricomposti in tre diverse iniziative, con l’obiettivo di indicare e colpire alcuni «attori» della gestione capitalistica della crisi, che si è tradotta per usare le parole di Karin Zennig – una delle portavoce di Blockupy – in «un gigantesco processo di ristrutturazione dei rapporti di forza tra le classi, che ha ridistribuito in termini sempre più ineguali e polarizzati la ricchezza socialmente prodotta».

Cinquecento attivisti hanno per ciò circondato in Willy-Brandt platz la sede della Deutsche Bank, evidenziandone le responsabilità nell’attivo supporto ai processi di privatizzazione di servizi pubblici e beni comuni in Europa, alle speculazioni legate al land grabbing  in Africa e, dappertutto, alla produzione e al traffico d’armi. Un combattivo presidio che si è concluso con l’incendio di un gigantesco carro armato di cartapesta, simbolo degli affari bellici della Germania nei cinque continenti.

Contemporaneamente diverse centinaia di manifestanti raggiungevano lo Zeil, la via pedonalizzata dedicata allo shopping nel centro antico di Francoforte, affollata per gli acquisti del venerdì pomeriggio: qui nel mirino erano invece i grandi centri commerciali e i più famosi marchi multinazionali dell’abbigliamento. Gli uni impegnati nel tentativo di cancellare le organizzazioni sindacali e di precarizzare sistematicamente il lavoro al proprio interno. Gli altri colpevoli di sfruttare manodopera a basso costo nel Sud del mondo. E così, in simultanea, un primo gruppo picchettava gli ingressi della catena Karlstad imponendo lo sciopero, un secondo inscenava un sit-in davanti alle vetrine del grande mall «My Zeil», un altro ancora, guidato dagli italiani della Coalizione per Blockupy, chiudeva dopo un corpo a corpo con la polizia il maxi store di Benetton: «Non dimentichiamo – spiegava al megafono Luca Tornatore – i millecento operai assassinati in Bangladesh per un euro al giorno di salario e da qui avvertiamo la multinazionale di Treviso che la nostra campagna di boicottaggio diventa internazionale».

Intanto un migliaio di attivisti, divisi in tre gruppi, riusciva a raggiungere l’Aeroporto Intercontinentale, uno dei più trafficati hub d’Europa, ma anche uno dei principali scali d’imbarco per il respingimento di richiedenti asilo e migranti. «Chiudere l’aeroporto delle deportazioni» si poteva leggere sullo striscione posto alla testa di un corteo interno che ha attraversato il Terminal 1. La polizia però si scatenava con i manifestanti rimasti all’esterno, con qualche carica rabbiosa e fermi isolati.

Una giornata straordinaria, conclusa da incontri e assemblee nella sede del sindacato Dgb e dagli ultimi preparativi per una manifestazione conclusiva che, per oggi, si annuncia assai partecipata.