Alle 4 e 30 della notte quando è scattato il blitz delle teste di cuoio in un appartamento della rue du Corbillon, una piccola strada commerciale dove le case e i negozi sono sorti praticamente l’uno sull’altro, Saint-Denis era ancora avvolta nel sonno e nel silenzio. Poco prima di mezzogiorno però, quando i reparti speciali delle forze dell’ordine e i militari in mimetica, casco e fucile d’assalto sono risaliti sui camion per riguadagnare le loro caserme, i cordoni dei Crs faticavano ormai da tempo a contenere la curiosità, ma anche l’inquietudine di molti abitanti di Saint-Denis.

Quella che rappresenta ad oggi l’azione più importante nelle indagini in corso sugli jihadisti sopravvissuti agli attacchi del 13 novembre, ha infatti avuto luogo in una delle banlieue più popolate di Parigi. Una mezza giornata di stato d’assedio, con i parà e i veicoli militari che chiudevano le strade mentre gli elicotteri della polizia volteggiavano nel cielo, hanno tradotto plasticamente le parole di Hollande sul fatto che la Francia sia ormai in stato di guerra. Solo che se il fronte che i terroristi intendono imporre come scenario del conflitto alle autorità sono i quartieri popolari della grandi metropoli, c’è il rischio che questa guerra la si perda in ogni caso già prima di averla combattuta o che la democrazia francese ne esca riportando delle ferite difficilmente rimarginabili.

Anche perché, l’operazione condotta a Saint-Denis, che ha coinvolto più di un centinaio tra agenti del Raid, della polizia anti-criminale e truppe scelte dell’esercito, si è chiusa con un risultato che ha reso le preoccupazioni della vigilia ancora più acute. Seguendo le tracce dei messaggi registrati su un telefonino perso da uno degli assalitori del Bataclan, gli inquirenti sono arrivati ad individuare un appartamento dove si pensava si potesse nascondere Abdelhamid Abaaoud, il ventottenne terrorista belga di origine marocchina ritenuto un esponente significativo dell’Isis, ma soprattutto la «mente» degli attentati di Parigi.

Dopo ore di assedio e ripetuti attacchi, condotti anche con l’utilizzo di cariche esplosive, la cui eco si è udita per chilometri, allo scopo di snidare le persone nascoste a più di un piano del medesimo edificio, le forze dell’ordine hanno però scoperto di aver sì intercettato degli jihadisti, ma di non aver messo le mani sul loro principale obiettivo. Con il risultato che ora si sa che non solo Abaaoud è ancora in libertà, al pari del ventiseienne Salah Abdeslam di cui si sono perse le tracce in Belgio fin da sabato mattina, ma che potrebbe ancora trovarsi in Francia se non proprio a Parigi.

L’altro esito saliente della giornata riguarda la definitiva constatazione che a differenza di quanto avvenuto a gennaio quando le azioni dei fratelli Kouachi e di Amedy Coulibaly contro Charlie Hebdo e il supermercato kasher della Port de Vincennes sembravano essere state improntate ad una certa dose di improvvisazione, in questo caso gli stragisti hanno goduto di una rete organizzata e pericolosa di sostegno. A Saint-Denis, al momento dell’irruzione delle teste di cuoio, una giovane donna si è fatta saltare in aria mentre un uomo è morto nel corso dello scontro a fuoco, mentre 8 persone sono state arrestate, il che porta a quota 20 il numero dei sospetti fermati in Francia cui si devono aggiungere la decina di arresti effettuati in Belgio.

Il blitz di Saint-Denis ha però rivelato anche il clima nel quale rischia di aver luogo questa delicata caccia all’uomo. Oltre centomila abitanti, porta d’accesso a quel dipartimento della Seine-Saint-Denis, il 93, che racchiude alcune delle periferie più calde del nord di Parigi, questo comune incarna per molti versi l’intera storia dei quartieri popolari del paese. Centro industriale negli anni Venti, a lungo «capitale» della banlieue rouge governata dai comunisti, in anni più recenti simbolo della crisi delle periferie con tassi di disoccupazione e di criminalità altissimi, Saint-Denis è anche un simbolo del modo in cui le famiglie immigrate sono state relegate oltre il confine invisibile del boulevard périphérique che circonda la capitale: qui le persone di origine straniera sfiorano il 40% della popolazione totale e 7 giovani su 10 sono figli di genitori nati fuori del paese, prevalentemente nel Maghreb o nell’Africa sub-sahariana. Un primato dalle tinte incerte che le culture nate dalla strada hanno riconosciuto da sempre alla città dove nel 1995 Mathieu Kassovitz girò L’odio («Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio»), dove la scrittrice Faïza Guène, nata nella vicina Bobigny, ha ambientato alcune delle sue storie (Kif kif domani, 2004) e che è stata cantata da tanti rapper, tra cui gli Ntm, Grand Corps Malade e Wallen, musulmana e velata, quest’ultima che ne parla come di un luogo dove «Madame la Giustizia, quando si presentava la notte, placcava i miei fratelli sul selciato», un riferimento evidente ai metodi usati dalla polizia. Ora, dopo un giorno di stato d’assedio, con 10 linee di metrò deviate, le scuole chiuse e interi edifici fatti sgombrare per precauzione, in un bar non lontano dallo Stade de France, inaugurato proprio qui nel 1998 e attaccato dagli jihadisti al pari del Bataclan e dei locali della zona di République, Hassen, un algerino di mezza età affida ad un cronista di Libération le sue preoccupazioni: «Anche se noi questi terroristi li odiamo, tutto questo finirà certamente per ricadere su tutti i musulmani, sulla gente delle periferie».

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Una scena del film “L’odio”