A Ginevra il segretario di stato americano, Antony Blinken, e il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, hanno discusso a lungo prima di lasciare la città con una frase che hanno ripetuto spesso di recente: ancora nessuna svolta.

MA OLTRE ALLA RETORICA richiesta dalla circostanza, e di quella fa parte anche la minaccia di «gravi conseguenze» avanzata da Mosca nel caso in cui gli Stati uniti ignorino preoccupazioni giudicate «legittime» sul piano della sicurezza, qualcosa nel confronto fra Cremlino e Casa Bianca sembra adesso in movimento.

I russi hanno fatto capire in modo definitivo che la questione ucraina, di cui la stampa in Europa e negli Stati Uniti discute da mesi in modo appassionato, è nei fatti soltanto un tassello di un dossier ben più ampio. Così hanno chiesto ufficialmente il ritiro delle truppe straniere che appartengono alla Nato da Romania e Bulgaria, due paesi affacciati sul Mar Nero. Il bacino è strategico per il Cremlino, lo dimostrano le scelte politiche senza precedenti assunte da Vladimir Putin con la Crimea nel 2014.

La reazione sollevata a Bucarest e Sofia è stata netta: il governo romeno ha parlato di «pretesa inaccettabile»; quello bulgaro ha ribadito la propria sovranità e il diritto a organizzare la difesa in modo autonomo, di concerto con i partner. Lavrov ha detto di aspettarsi «risposte scritte la settimana prossima».

INSOMMA, C’È UN’AGENDA dei lavori, ci sono tempi stabiliti, non è detto che siano rispettati e non è detto neanche che si arrivi a un risultato soddisfacente, ma i colloqui proseguono e riguardano a questo punto l’architettura complessiva della difesa in Europa. Blinken non ha offerto soluzioni. È’ arrivato a Ginevra dopo due tappe che si possono definire preparatorie, una a Kiev e l’altra a Berlino. Potrebbe tornare in Europa la settimana prossima, nel caso in cui il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, riesca a convocare un altro Consiglio Nato-Russia.

In ogni caso, il vertice di ieri è stato preceduto da un paio di fatti singolari. Del primo ha dato conto Tommaso Di Francesco nell’editoriale sul manifesto di ieri. Parlando con i giornalisti, il capo della Casa Bianca, Joe Biden, ha proposto una stravagante distinzione tra l’ipotesi di un intervento russo in Ucraina «su larga scala», di fronte al quale il Cremlino pagherebbe un costo molto alto», e la possibilità di una “incursione limitata”, che comporterebbe una «risposta minore» degli Stati Uniti.

A queste parole il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha risposto ieri con un messaggio pubblicato anche il lingua inglese sui suoi profili social. «Vogliamo ricordare alle grandi potenze che non esistono incursioni limitate e piccoli paesi», ha scritto Zelensky, «così come non può esserci poco rammarico per la scomparsa delle persone che amiamo». Ventiquattro ore prima, e si tratta del secondo fatto singolare accaduto negli ultimi giorni, lo stesso Zelensky aveva lanciato l’ennesimo appello decisamente fuori linea rispetto ai documenti americani che parlano di una guerra imminente. «Che cosa c’è di nuovo? Non è la stessa realtà che affrontiamo da otto anni a questa parte? L’invasione non è forse cominciata nel 2014? La minaccia di una guerra aperta è comparsa soltanto ora? Tutti questi rischi già esistevano. È soltanto l’eccitazione a essere cresciuta»: occorre notare che Zelensky ribadisce questo concetto da mesi. Già a dicembre il suo ufficio stampa ha messo in dubbio gli avvertimenti della Nato e degli Stati Uniti su un’operazione militare russa, ma nessuno è parso particolarmente interessato al suo punto di vista, che per la verità dovrebbe essere dirimente.

È SIGNIFICATIVO, POI, che né Zelensky, né i rappresentanti del suo governo siano mai stati coinvolti nei colloqui che riguardano il futuro dell’Ucraina. La posizione di Kiev è rappresentata dagli Stati Uniti nella sua dimensione per così dire internazionale. Ma nel concreto l’Amministrazione Biden non sembra disposta ad assumere alcun impegno militare nella difesa del paese, fatta eccezione per la fornitura di armi. La sua è una versione ridotta della dottrina obamiana “lead from behind”, senza alcuna copertura idealista.

È STATO IN SETTIMANA il presidente turco, Receep Tayyp Erdogan, a proporre un incontro fra Putin e Zelensky. Ma neanche Putin in questa fase ha intenzione di chiudere un accordo che riguardi soltanto l’Ucraina. Così il ministero della Difesa di Kiev continua una privata corsa agli armamenti. Nei giorni scorsi ha incassato il «no» della Germania. Ma dopo i numerosi carichi di missili anticarro ricevuti dalla Gran Bretagna ha ottenuto anche un’apertura per la fornitura di armi dall’Olanda e – con l’approvazione della Nato – dai Paesi baltici.