A meno di 24 ore dall’annuncio ufficiale del presidente Biden sul ritiro delle truppe americane, il segretario di Stato Usa Antony Blinken arriva in Afghanistan con una visita non annunciata. Va a rassicurare Kabul. Porta un messaggio «anche da parte del presidente Biden: la nostra partnership con l’Afghanistan è duratura, rimarremo fianco a fianco anche in futuro». Così Blinken nel corso degli incontri avuti, separatamente, con il presidente Ashraf Ghani e con Abdullah Abdullah, a capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale.

La decisione di ritirare i rimanenti 3.500 soldati americani entro l’11 settembre 2021, nel ventennale dell’attacco alle Torri gemelle e 4 mesi dopo rispetto a quanto concordato con i Talebani con l’accordo di Doha del 2020, provoca scossoni profondi nella politica afghana. Il presidente Ghani prende fiato. Spera in questi quattro mesi per uscire dall’angolo nel quale l’urgenza americana di chiudere la partita negoziale prima del ritiro l’ha condotto.

Oggi pare chiaro che l’offensiva diplomatica inaugurata proprio da Blinken a marzo, con una lettera dai toni urgenti e aspri inviata a Ghani e Abdullah, non è riuscita. Il ritiro ci sarà, l’accordo politico no. Serviva a Washington per un’uscita meno disonorevole dal pantano afghano. Gli serve ancora, ha fatto capire ieri Blinken e, il giorno prima, il presidente Biden.

Serve anche a molti politici all’opposizione di Ghani, i quali puntano a un governo di transizione che darebbe loro nuovo potere, oggi troppo accentrato nelle mani del presidente. Ma per fare quell’accordo ci vogliono i Talebani. Il messaggio di Blinken è rivolto «soprattutto a loro: è molto importante che i Talebani riconoscano che non saranno mai un attore legittimo e duraturo se respingono il processo politico e cercano di assumere il controllo del Paese con la forza».

Potrebbe essere la tentazione di una parte del movimento, ma è minoritaria, almeno per ora. I Talebani hanno reagito alla decisione dell’amministrazione Biden – che sembrava concordata con loro e invece è stata unilaterale – sottolineando che è una rottura dell’accordo di Doha. Ma nei prossimi mesi potrebbero limitarsi ad alzare il tono della propaganda, senza cambiare postura militare.

Nella decisione di Biden c’è un azzardo. Scommette che, a dispetto dei 4 mesi di posticipo, i Talebani non strapperanno la carta negoziale. Che continueranno a stare al gioco. Il direttore della Cia William Burns ieri ha dichiarato che, senza i militari sul terreno, Washington perderà la leva di convincimento principale: le minacce.

Ma Biden giocherà su un altro piano. Sulle ultime due leve rimaste. I Talebani cercano il riconoscimento internazionale, oggi ancora parziale. Se dalla disponibilità al negoziato passassero a una postura militare più aggressiva, lo perderebbero del tutto. E cercano la stabilità finanziaria, che passa dalla disponibilità dei donatori. E dal processo di pace. Per ora dicono di non voler partecipare alla conferenza prevista a Istanbul dal 24 aprile al 4 maggio, organizzata dai governi di Turchia e Qatar e dalle Nazioni unite.

Il jolly diplomatico su cui puntava, con troppa fretta, Biden. Che cercherà comunque di far cambiare idea ai Talebani attraverso Istanbul e, soprattutto, Doha. In attesa di vedere le mosse degli studenti coranici, Blinken a Kabul garantisce al popolo e al governo afghano che «ritireremo le truppe, ma incrementeremo in tutte le altre aree il nostro impegno».

Gli afghani hanno imparato a diffidare delle promesse. Ma incassano volentieri l’impegno degli Usa di continuare a finanziare le forze di sicurezza afghane. Senza quei soldi, saltano gli stipendi dei soldati.