«Quando tutto è stato detto, resta da dire il disastro, rovina della parola, cedimento attraverso la scrittura, brusio che mormora: ciò che resta senza resto». Questo sintomatico passaggio, tratto da La scrittura del disastro, è citato da Mario Ajazzi Mancini, ottimo curatore e traduttore di L’ultimo a parlare di Maurice Blanchot (Orthotes Editrice, pp. 164, € 16,00). Il testo fu originariamente allestito per un numero monografico su Paul Celan del 1972 del periodico svizzero francofono «La Revue de Belles Lettres» che accoglieva vari contributi, tra cui quelli di Du Bouchet, Daive, Michaux e Dupin. Le dernier à parler (ispirato a un verso dello stesso Celan: «Parla anche tu, / parla come l’ultimo a parlare, / di’ il tuo dire»), proposto come titolo autonomo nel 1984 per Fata Morgana, verrà trasposto in italiano da Claudio Angelino per Il Melangolo nel 1990. Il breve saggio di Blanchot, che passa da una serrata esegesi a considerazioni di taglio speculativo traenti le mosse dalle vertiginose concatenazioni concettuali presenti nel regesto celaniano, dette adito alla controversia con la vedova Gisèle Celan-Lestrange a proposito delle citazioni riportate, possibile causa di fraintendimenti da parte del lettore, in quanto risultavano omesse le fonti, quasi si attingesse a un unico componimento.
Si tratta, come riferito nella postfazione, di «una specie di “commento” all’opera di Paul Celan (mostrando di conoscerla nella sua interezza, almeno nei riguardi dei volumi pubblicati in vita dal poeta), che si basa su una traduzione in proprio dei poemi (sono ignorate le traduzioni esistenti all’epoca, comprese quelle comparse nella “Revue de Belles Lettres”) e dei testi in prosa, attraverso una precisa sistemazione tipografica: disposizione degli originali sulla pagina di sinistra e della versione sulla pagina di destra. Pagine pari per Celan, dispari per Blanchot come in un testo a fronte – quasi a indicare nella traduzione il luogo stesso della lettura». Quella di Blanchot è tuttavia una lettura atipica, a tratti criptica, volutamente ellittica, dell’opera di Celan, quasi per una sorta di mimetica condivisione di temi e intenti, inscrivendosi sulla scia delle molteplici interpretazioni filosofiche approntate da pensatori d’eccezione come Adorno, Gadamer, Lévinas, Derrida. Lacoue-Labarthe asseriva che «sarebbe ben poca cosa dire che Celan aveva letto Heidegger. Di là da un “riconoscimento” del pensiero di Heidegger, credo che si possa affermare che la poesia di Celan, nel suo insieme, è un dialogo col pensiero di Heidegger». Dialogo controverso che non può non tener conto, da parte di un sopravvissuto alla Shoah, dell’adesione al nazismo del filosofo di Essere e tempo.
A proposito della cosiddetta Allocuzione di Brema, il critico francese osserva, ribaltando la concezione adorniana dell’impossibilità poetica dopo Auschwitz: «È in questo stesso breve discorso che, con estrema semplicità e sobrietà, Celan fa allusione a ciò che per lui – e per noi, grazie a lui – ha potuto significare il fatto che non gli sia stata tolta la possibilità di scrivere poemi in una lingua, tramite la quale la morte gli è piombata addosso, addosso ai suoi cari, a milioni di Ebrei e non Ebrei, evento senza risposta». E paradossalmente sarà proprio la lingua dei suoi aguzzini a dare l’abbrivio a una parola che aspira all’afasia (o a una mortificante balbuzie), al silenzio che rimane una delle prerogative «etiche» dello stesso Blanchot, la cui vita, secondo la definizione di Évelyne Grossman, fu «interamente consacrata alla letteratura e al silenzio che le è proprio». Quel celaniano «Silenzio, cotto come oro, / in mani / carbonizzate», proposto da Ajazzi Mancini in una versione dell’Archetipo della parola: René Char e Paul Celan di Marco Ercolani (Carteggi Letterari/le edizioni), si configura come paradigmatico trait d’union nell’opera di due autori simili e dissimili: l’interprete si trasforma in interpretato, relegandosi in una claustrofobica torre di Tubinga. Ma per tale metamorfosi è necessario percorrere un tragitto infinito e, al tempo stesso, infinitesimale: il «crepaccio del tempo» («Zeitenschrunde») propagatosi dalla pagina di sinistra a quella di destra. Un’anabasi. Attraversare la cecità, il mondo con «Occhi, ciechi al mondo». Testimoniare «con denti di scrittura» ciò che non è possibile testimoniare. Penzolare nel vuoto dei giorni, seguendo la girandola «di parole sempre in cammino». I testi si emancipano dall’autore, divengono indipendenti, interdipendenti. Da Die Niemandsrose alla Folie du jour. Solo il corsivo, non il virgolettato, differenzierà l’idioma reciproco, come ribadisce ancora il curatore: «lasciare all’altro la parola – l’ultima parola – dicendola altresì con la propria voce, ma non al suo posto, piuttosto al posto della sua scomparsa, nel luogo stesso dove manca, è venuto a mancare e non è più: “testimonianza per il testimone”. Una sorta di pas-de-lecture – “non-passo” di lettura – che trasforma il “commento” in un ré-cit (in stile blanchottiano): citazioni e ripetizioni che si iscrivono incessantemente dando luogo a una narrazione (…) che deborda ogni definizione e genere, per sostenere e attestare l’impossibile possibilità di una voce altrui che parla attraverso la propria, quasi a suggerirle, sussurrarle – secondo un’accezione di Sprachgitter – le parole».