«Io ho sempre cercato, con più o meno ragione, di apparire il meno possibile, non per esaltare i miei libri, ma per evitare la presenza di un autore che avanzasse la pretesa a un’esistenza propria». Con tali ragioni Maurice Blanchot (1907-2003) rispondeva con un rifiuto alla richiesta di inserirlo in una pubblicazione comprendente ritratti fotografici di diversi scrittori. È conosciuta la sua avversione a comparire pubblicamente e a rendere manifesta la fisionomia del proprio volto (pochissime sue immagini sono state rese note) ma quel che sorprende è la motivazione del diniego, quella sorta di tautologia che non si può non rilevare tra «la presenza di un autore» e la sua «pretesa» di esistere. È come se Blanchot volesse affermare, sulla falsariga di quello straordinario personaggio del racconto di Melville Bartlelbly lo scrivano («Preferirei non farlo» il refrain che cadenza la vicenda), la sua totale estraneità a un mondo investigato con le sole armi di una scrittura «speculativa» che si impone, soprattutto a livello critico, come una delle più paradigmatiche del secolo del malessere e dell’inquietudine.
Entrambi i brani citati, compreso l’esauriente saggio su Melville, si possono ora leggere nel n. 37 che «Riga», il semestrale diretto da Marco Belpoliti e Elio Grazioli, dedica, appunto, a Maurice Blanchot (Marcos y Marcos, pp. 320, € 28,00). Il volume è curato da Giuseppe Zuccarino che, nel 2006, aveva tradotto per la collana «I libri dell’Arca» delle Edizioni Joker Noi lavoriamo nelle tenebre dello stesso Blanchot, che raccoglieva una serie di saggi ispirati alle figure di Henri Michaux, Louis-René de Forêts e Samuel Beckett. Il numero di «Riga» offre uno spaccato significativo sull’opera di Blanchot, accogliendo i più svariati contributi: testi inediti in italiano, testimonianze, studi, interventi critici su temi specifici, tributi di carattere creativo (Char, Jabés, l’«apocrifo» di Marco Ercolani su L’ultimo a parlare, incentrato sulla poesia di Celan). Nonostante non fosse un’operazione semplice, in quanto la figura dell’autore francese, nella sua estrema complessità, risulta quanto mai sfuggente e spesso di ardua decifrazione, Zuccarino è riuscito ad allestire un lavoro convincente, approfondito, che tiene conto delle diverse sfaccettature della personalità blanchotiana, a partire da quelle di narratore, critico letterario e saggista.
Stringatezza beckettiana
In tal senso risulta pochissimo conosciuta nel nostro paese l’opera narrativa, di cui vengono offerti alcuni specimina, comprendenti i capitoli iniziali dei romanzi Thomas l’obscur (1941) e Le Trés-Haut (1948), nonché Il ritorno, prima parte del racconto Au moment voulu (1951), originariamente pubblicato in un numero della rivista «Botteghe oscure». Questi testi si configurano, nella loro enigmaticità, nella loro stringatezza di taglio beckettiano, come una sorta di «corpo a corpo» linguistico sostenuto con uno dei temi-cardine del Novecento, quello dell’incomunicabilità. Non è un caso che, in uno dei suoi saggi più importanti, Le livre à venir, si legga che «non c’è mai certezza di una scrittura legata a un sapere che sfugge». Lavoro sul linguaggio che presuppone, dunque, l’insufficienza dello stesso a rendere in maniera intelligibile, o quanto meno persuasiva, eventi che irrimediabilmente sfuggono: «Nominare il possibile, rispondere all’impossibile».
Compito dello scrittore, sia esso il medesimo Blanchot o quella costellazione di autori indagata a livello critico (Kafka, Musil, Joyce, il Mallarmé del Coup des dés, Hölderlin, Rilke, Borges ecc.), sarà dunque quello di misurarsi con l’écriture come se si fosse a contatto con «l’incrinatura e la fessura, l’erosione e la lacerazione» di cui si parla a proposito di Artaud. «Scrivere è qualcosa di fondamentalmente pericoloso, di innocentemente pericoloso» si legge in un’altra lettera presentata nel numero monografico di «Riga». I personaggi rappresentati sono larve, simili a filiformi figure giacomettiane che camminano, poco più grandi di una capocchia di spillo, nel vuoto, simboli stessi di quel vuoto. Questa «insufficienza» non può che derivare dalla concezione di una morte onnipresente, anche se raramente nominata, come rileva nella sua testimonianza l’amico e sodale Georges Bataille: «Blanchot può dire di sé che, se parla, è la morte che parla in lui. Di fatto, la letteratura gli appare simile alla fiamma nella lampada: quel che la fiamma consuma è la vita, ma la vita in quanto è morte, nella misura appunto in cui muore, esaurisce la vita bruciando».
Scrittura dunque dell’oltranza, in cui l’eccezione diventa norma, come avverte lo stesso Blanchot: «Tutto avverrebbe quindi come se, nella letteratura romanzesca, e forse in ogni letteratura, l’unico modo di individuare la regola fosse l’eccezione che l’abolisce». In quest’ottica non si può non rilevare come l’attività di critico prediligesse quelle figure di «irregolari» che costituiscono l’emblema di quell’«assenza d’opera» di cui parlava Foucault. Con uno dei suoi tipici scarti stilistici, in cui l’assunto aforistico sfocia nell’ambiguità polisemica e nella sibillinità, Blanchot osserva: «non importa ricordare o dimenticare, ma, ricordando, essere fedeli all’oblio».
Insensato gioco di scrivere
D’altronde i libri capitali di Blanchot, da L’espace littéraire (1955) a Le livre à venir (1957), da Lautréamont et Sade (1963) a L’entretien infini (1969), si configurano come un’ininterrotta riflessione sull’«insensato gioco di scrivere», «la rivendicazione, contro il mondo, di un’autonomia, di una solitudine», per usare le parole di Barthes. E questo, spesso oltrepassando i limiti della letteratura, il suo essere immanente, a favore di una meditazione filosofica sulla quale si cementerà l’amicizia con alcuni pensatori d’eccezione come Levinas, Derrida, Foucault, Bataille, di cui si offrono sintomatici contributi, insieme a quelli di Klossowski, Starobinski e Didi-Huberman. La stessa giovanile militanza ideologica nella destra si tramuterà negli anni sul versante opposto, con l’adesione alla rivolta sessantottesca del maggio parigino. Con il tempo si è acuito il contrasto tra un’opera così celebrata (e citata) e la sua limitatissima «fruizione», soprattutto nel nostro paese, in cui la figura di Blanchot è stata confinata in un ristretto ambito specialistico, se non propriamente accademico. Precisava Derrida in un intervento qui proposto del 1998 che «l’opera di Blanchot è uno dei grandi eventi di questo secolo e oltre questo secolo, che fa la sua strada più o meno sotterraneamente, in ogni caso con discrezione, acquista intensità di presenza e nella misura in cui tale “intensità” si impone, fa nascere una sorta di apprensione, anche di paura, di risentimento».
Zuccarino suggella il suo lavoro presentando, in calce al volume, il suo saggio «Blanchot e il superamento del libro», in cui, prendendo l’abbrivio dalla concezione che da Le livre, testo del 1943, approda a L’écriture du desastre (1980), il critico francese si interroga sul destino stesso del libro. Nell’epoca in cui la rete sembra aver soppiantato l’influenza della carta stampata («L’absence de livre» si intitola emblematicamente uno dei capitoli di L’entretien infini), le riflessioni di Blanchot interpretate da Zuccarino sembrano avallare questo passaggio, tratto da Le livre à venir: «Il libro esisterà sempre, anche molto tempo dopo che la nozione di libro risultasse esaurita». Ma attenzione, il tempo dei profeti è finito, lo stesso Blanchot ci mette in guardia: «I falsi profeti piacciono, sono graditi artisti (giullari) più che profeti».