Nel febbraio 1981 Maurice Nadeau, direttore della rivista La Quinzaine littéraire, si trovò in una situazione imbarazzante: a quasi sei mesi dall’uscita dell’ultimo libro di Maurice Blanchot, La scrittura del disastro (traduzione di Federica Sossi, il Saggiatore, pp. 177, € 24,00) il periodico non aveva ancora dedicato spazio al saggio, malgrado il suo responsabile lo considerasse tra i libri che «modificano la visione delle cose e ci aprono a noi stessi». Nella consapevolezza della difficoltà di parlarne adeguatamente, nessun collaboratore della rivista si era sentito di renderne conto. Come regolarsi? Nadeau pensò a una strada inconsueta: si rivolse a due amici, lo scrittore Robert Antelme e il filosofo Dionys Mascolo, molto prossimi anche a Blanchot (tra i Cinquanta e i Sessanta avevano lavorato con lui al cosiddetto «Manifesto dei 121» e a testi di sostegno al Maggio francese) chiedendo loro di registrare un dialogo sul libro, annotare le osservazioni che ne sarebbero seguite, e pubblicare il tutto. I due accettarono. La cosa, però, si rivelò assai meno fruttuosa del previsto. La conversazione infatti fu caotica – le impressioni delle diverse letture del libro si intrecciavano senza che gli aspetti maggiori del testo ne risultassero efficacemente identificati – e, in definitiva, i tre amici deplorarono il risultato ottenuto, ricusandolo.

Nulla di fatto
Come notò uno di loro, l’esito della loro conversazione sul testo di Blanchot era astratto nel senso peggiore del termine: sembrava che il libro avesse la strana capacità di produrre una sorta di scambio tra l’«astrazione» e la «concretezza», delineando un mondo sensibile completamente diverso, uno strano e differente «reale», in cui le cose non erano nominate e definite, bensì semplicemente indicate dal pensiero e dalla scrittura.

I tre decisero di considerare la conversazione come mai avvenuta. Sulla Quinzaine Nadeau si limitò a citare le osservazioni scritte, molto disgregate, che Mascolo e Antelme accettarono di pubblicare. Eccone alcune. Antelme: «Il movimento di riconoscimento dell’altro, dell’altro infinito, natura di questo pensiero – il suo servizio: il genere umano mai abbandonato… Il pensiero più vicino a ognuno, il meno rivolto a sé… Immensità di questa parola disarmata». Mascolo: «Privazione della sicurezza dei concetti… lotta con essi, perché occorre a ogni costo spogliarli della loro insopportabile potenza di esclusione (devirilizzarli)… Blanchot è incomparabilmente attento alle più piccole cose, il meno astratto degli uomini».

Risultato modesto, allusivo, e marcato da una buona dose di pathos e da un ricorso all’iperbole singolarmente insistito. Indicativo, però, dello smarrimento che La scrittura del disastro provocò nei suoi primi lettori, tanto in quelli più lucidi e avvezzi alla densità della scrittura di Blanchot, quanto nei tanti che vi prestarono uno sguardo impaziente e consumista, indisponibile allo «sforzo letteralmente sfiancante» (è ancora Mascolo) necessario a recepirne le molteplici esigenze teoriche.

Assunta non solo e non tanto nell’aspetto negativo di catastrofe o rovina, la figura chiave del titolo, il «dis-astro», alludeva piuttosto al senso, sebbene recondito, di «allontanamento dall’astro», produzione di un’uscita dalla prospettiva di un ordine stellare armonico, processo di abbandono di ogni riferimento al cosmico del cielo stellato. «Dis-astro» diveniva con ciò l’indice complessivo della contestazione dei concetti di essere, di persistenza, di totalità, di unità in quanto referenti privilegiati del pensiero e dell’agire, e insomma immagine verbale di una promozione talmente intensa delle istanze della differenza, della esteriorità e del molteplice da rinviare a un «reale» posto al di là del campo delimitato dai poli oggettività-soggettività, e ben oltre i presupposti trascendentalisti e ontologici (correlazionisti, come direbbero i recenti teorici del «nuovo realismo») peculiari del pensiero filosofico da Descartes a Kant a Heidegger. Un pensiero tutt’altro che propenso a recepire fino in fondo gli effetti «disastrosi» delle rivoluzioni scientifiche e anzi incline a forme striscianti di «ritolomeizzazione».

Disgiungere innanzi tutto
Nel momento in cui pubblicò La scrittura del disastro Blanchot godeva di un riconoscimento diffuso, ma molto peculiare, allo stesso tempo confidenziale, intimo e internazionale, tanto nel campo della letteratura e della critica quanto in quelli della filosofia e della politica. Scritto in una condizione di isolamento quasi totale, il saggio ebbe una gestazione prolungata e una elaborazione estremamente impegnativa, come dimostra uno studio delle varianti che ne rivela il lavoro minuzioso di disposizione, dispersione, incrocio, agglutinazione dei contenuti tematici, di distribuzione figurativa dei caratteri, tondo e corsivo, con le sue molte – sempre notevoli – correzioni.

Del disorientamento che assalì i primi lettori era responsabile già la forma, ovvero quel dispositivo frammentario che, studiato da Blanchot nei primi romantici, in Nietzsche, in Char, veniva qui messo in opera secondo una logica enunciativa energicamente nuova. 403 «frammenti» di lunghezza molto variabile (nell’edizione originale ciascuno preceduto da una losanga, assente in quella italiana) nel loro ritmo discontinuo inducono un reiterato decentramento, una sempre rinnovata sospensione della pretesa monologica del saggio. Mentre fissano alcuni termini o temi individuati come essenziali (tra gli altri: la relazione ad altri, Auschwitz, il trascendimento dei valori, la morte, la temporalità rivoluzionaria, l’amicizia, la questione del dono, l’infanzia, l’apporto psicoanalitico, l’ebraismo) i «frammenti» rimettono tutto in causa, dinamizzandone il significato, fino a «disastrarli».

Una domanda politica
Nessuna categoricità concentrata come negli aforismi, né il lapidario, sentenzioso moralismo proprio delle massime. Nel privare di legame lo sviluppo argomentativo, nell’esibire senza alcuna compiacenza gli spigoli vivi delle frasi separate – prive di pretesto e di contesto, e così isolate dagli spazi bianchi da rendere quasi impossibile passare dall’una all’altra – il libro aspira a un ordine di tipo nuovo, che non cerca conciliazione o armonia, e stabilisce invece la disgiunzione come legge e centro di un diverso tipo di compimento, sollecitando il lettore a mettere in questione il proprio sapere interpretativo, la sua stessa maniera di porsi domande.

Il dialogo – senza esclusione di colpi – con circa sessanta altri filosofi e scrittori, tra i quali autori contemporanei come Barthes, Bataille, Deleuze, Derrida, Lévinas, Leclaire, Winnicott, moltiplica le poste in gioco, soprattutto etiche e teoretiche: per un verso una opposizione originalissima al nichilismo e una messa a fuoco della nozione – meglio, dell’«esperienza» – del cosidetto «il y a», per l’altro la discussione dei connotati paradossali della relazione all’altro e della responsabilità. Ma anche, forse soprattutto, una latente e pervasiva domanda politica. Non per niente, tra le prime occorrenze della parola «disastro» nella scrittura del Blanchot maturo, c’è questa frase consegnata a un testo dell’ottobre 1968: «Lo iato teorico è assoluto; la frattura, di fatto, decisiva. Tra il mondo liberal-capitalista, il nostro mondo, e il presente dell’esigenza comunista (presente senza presenza) non c’è che il tramite di un disastro, di un cambiamento d’astro».