Il sito ufficiale fornisce un resoconto dei 30 anni che separano gli eventi narrati in Blade Runner 2049 da quelli del film originale di Ridley Scott (1982). Il mondo è ormai al limite delle risorse. Los Angeles è una spaventosa bidonville dietro al grande muro che la protegge dalle inondazioni dell’Oceano Pacifico ingrossato dall’effetto serra, abitata solo da chi non ha risorse per emigrare sulle colonie planetarie. Non esistono più alimenti freschi,solo quelli geneticamente modificati, venduti in appositi distributori. Sullo sfondo di questo mondo sull’orlo del collasso ecologico veniamo messi al corrente dell’attentato terrorista del 2023, attribuito a replicanti ribelli in seguito al quale viene proibita la produzione di androidi. Ma successivi progressi da parte dello scienziato Niander Wallace, che acquista la vecchia Tyrell Corporation inducono i politici a sollevare l’embargo. Viene prodotta nuova generazione di replicanti più geneticamente controllabili – i Nexus 9. Intanto la polizia di Los Angeles mantiene la squadra speciale di «blade runner» preposti a braccare e neutralizzare i replicanti clandestine. Uno di loro, l’agente K (Ryan Gosling) è sulle tracce di un collega in pensione – Rick Deckard (Harrison Ford) – che potrebbe fornirgli la chiave della sua indagine.Dire che il film è atteso è un eufemismo, i fan del primo film lo aspettano da 35 anni. Alla convention fantscientifica di San Diego i segni della seconda venuta di uno dei titoli simbolo della fantascienza d’autore erano un po’ ovunque, sulle maxi grafiche stampate sulle fiancate dei tram e sul tendone dove era stata allestita la Blade Runner Experience – i fortunati che sono riusciti ad entrare hanno potuto indossare i visori e immergersi in una soggettiva realtà virtuale in un inseguimento in auto volante nei cieli brumosi di una Los Angeles futuribile, sovrastata dai caratteristici mega cartelloni elettronici.

L’applauso più forte è stato quando sul palco della convention è uscito Harrison Ford alias Rick Deckard, il detective marlowiano che nell’originale dà la caccia a Rutger Hauer e alla sua banda di replicanti ammutinati. Qualcuno ha chiesto a Ford – che trent’anni dopo gli originali continua ad indossare anche i panni di Indiana Jones e Han Solo – se avesse intenzione di risuscitare ogni celebre personaggio interpretato da giovane. «Ci puoi scommettere!» è stata la risposta. Questo sembra effettivamente essere l’anno dei sequel eccellenti e dei reboot di classici. Primo a riesumare personaggi ed interpreti dopo un pausa di vent’anni è stato Danny Boyle che ha rimesso insieme i sopravvissuti di Trainspotting nel bel sequel. E David Lynch ha riaperto la pratica Twin Peaks dimostrando che la sovversione delle convenzioni televisive non conosce età – almeno non l’ultimo quarto di secolo.
Anche per Blade Runner Ridley Scott aveva pensato da subito ad un sequel ma i diritti della storia poi sono diventatai oggetto di un annosa contesa. Quando si sono infine sbloccati Scott ha chiesto a Hampton Fancher, sceneggiatore dell’originale, di lavorare ad un copione. Il creatore di Alien – la franchise di cui ha ripreso le redini dopo trent’anni con Prometheus, era troppo impegnato con Alien Covenenant (e il prossimo film della nuova trilogia), per dirigere Blade Runner 2049. Da produttore esecutivo ha invece chiesto al franco-canadese Denis Villeneuve di passare dietro alla cinepresa.

«Ricordo, dice Denis Villeneuve, che stavamo girando Prisoners quando ho ricevuto al prima telefonata e mi hanno detto ‘Ridley Scott vorrebbe incontrarti’ che non potevano dire di cosa si trattava …’va bene si tratta di Blade Runner’. Cosa!!?». Cinque anni dopo il film è finito e pronto per l’uscita ad ottobre e Villeneuve che, nel frattempo, ha trovato il successo internazionale con Sicario e Arrival si trova a rispondere alla domanda che tutti gli fanno sulla soggezione nel mettere mano ad un film mitico. Dal palco di Comicon si è trincerato dietro a una battuta: «Non volevo che qualcun altro lo rovinasse».
Più tardi anche noi abbiamo inevitabilmente cominciato con la stessa domanda. «Quando ho saputo che volevano fare una sequel di Blade Runner mi è sembrata al contempo la più fantastica, emozionante e allo stesso tempo forse la peggiore idea che avessi mai sentito. Perché si tratta di un universo che ho amato profondamente. Quando poi ho avuto in mano la sceneggiatore, oltre al timore, mi sono sentito onorato che lo studio avesse avuto la fiducia che volessero affidarmi questa regia. Non ho accettato di getto intanto perché c’erano dei conflitti di calendario con le riprese di Arrival che stavo per iniziare. E poi volevo sincerarmi che avrei potuto fare mio quel mondo. Può essere uno strano processo calarsi in un mondo creato da qualcun altro. Non volevo trovarmi a fare il graffitaro in una chiesa altrui per così dire. Non volevo essere un parassita, dovevo trovare in qualche modo la chiave per appropriarmene. Solo allora mi sono sentito a mio agio. Non è stata un decisione presa alla leggera».
Ha cercato di rimanere fedele al primo film?
Sì, il film terrà decisamente fede allo spirito dell’originale e alla sua estetica «noir». Si. È ancora un poliziesco, un giallo esistenziale. Un storia di detective immerse in quell’inconfondibile atmosfera fatta di luce impressionista. Abbiamo voluto rispettarla perché li abbiamo talmente amati e il film in fondo è un’estensione dell’originale e in parte una nuova esplorazione di quel mondo. La sceneggiatura mantiene la fedeltà e allo stesso tempo offre lo spunto per ampliarne il respiro. Intanto perché la storia si svolge, sì a Los Angeles ma stavolta anche in alcune location limitrofe. Esiste, quindi, la possibilità di espandere il linguaggio visivo creato da Ridley Scott.
Un responsabilità non indifferente …
Non è stata la prima volta che mi hanno offerto un grosso progetto. Soprattutto dopo Prisoners ho ricevuto parecchie offerte di dirigere blockbuster, film-spettacolo, specialmente di fantascienza, ma ho sempre rifiutato. Credo ci sia oggi la tendenza di affidare a giovani registi progetti a volte al di sopra delle loro possibilità e non volevo essere il capro espiatorio di un fallimento (ride, ndr). E mi sono detto: «se facessi mai un passo del genere, ne vorrei assumere in pieno la responsabilità, se la nave affonda io vado giù con lei, da capitano. Se non vi piace il film, la colpa sarà stata mia, non dello studio». E quando ho letto la sceneggiatura di Blade Runner 2049 ho capito che questo film valeva quel rischio – per la potenza della storia, per l’amore che ho sempre avuto per quell’ universo. Quindi sì, è rischioso, il più grande rischio che abbia mai corso. E lo rifarei.
Cosa ha significato per lei il primo film? Quando lo ha visto?
È stato un film cruciale, inestricabilmente legato alla mia passione per il cinema. L’ho visto da giovane adolescente, a 13, 14 anni, quando cominciavo a sognare di fare il regista. All’epoca eravamo affamati di buona fantascienza. Sono sempre stato un appassionato ma all’epoca c’erano un sacco di B-movie o di film mirati ai ragazzi. Quando è uscito Blade Runner poneva dei quesiti inediti sull’umanità e segnava un nuovo modo di intendere la sci-fi. Non si era mai vista allora un operazione come quella di Ridley Scott che mescolava il genere noir con la fantascienza. Per noi fu una rivelazione. Io ed i miei compagni diventammo fanatici di Blade Runner, per la prima volta ci sembrava che qualcuno avesse creato un futuro plausibile, un mondo in cui si stratificavano plausibilmente passato presente e futuro. Un futuro in cui il passato era ancora vivo, rappresentato da quelle pubblicità di marchi che conoscevamo, era un estetica inconfondibile e prorompente.
È tornato a leggere il romanzo originale di Dick?
Sì, certo. Ridley si è allontanato da quel testo ma per me il libro è rimasto una guida per come orientarsi in quel mondo futuro. Mi ha aiutato col problema di cosa fare con Deckard. Nell’originale secondo Harrison, Deckard è umano ma secondo Ridley è sicuramente un replicante come si evince dal suo ultimo final cut. Quindi abbiamo dovuto decidere come affrontare la questione. Harrison e Ridley sono ancora lì che ne discutono. Per risolverla sono dovuto tornare alla fonte, a Philip K Dick, ai dubbi che i suoi personaggi – perfino i detective – hanno sulla propria identità – a volte non sanno loro stessi se sono androidi o umani. Questo dubbio è diventato la chiave del film. Personalmente, preferisco quando nel cinema il mistero e i dubbi sovrastano le certezze e le risposte.