Giunta alla sua quarta stagione, Black Mirror, la serie creata dall’inglese Charlie Brooker si conferma come uno dei discendenti più riusciti di Ai confini della realtà. Come il mitico programma di Rod Serling, quello di Brooker, si basa su un cocktail difficile da replicare con successo, tra fascinazione tecnologica, quesiti morali, satira sociale e passione profonda per il genere fantastico. L’equilibrio tra gli ingredienti è quasi perfetto nel primo, trionfale, dei sei episodi a sé stanti disponibili via Netflix a partire dal 29 dicembre. Per qualche minuto, USS Callister sembra un buffo omaggio a Star Trek, tutto colori vivacissimi e tutine retrofuturiste sull’astronave da sitcom che ospita il capitano Daly e il suo adorante, zelante, equipaggio. «Cut» e Daly riappare nei panni del programmista geniale ma sfigato di una tech firm specializzata in video game. Un biondo timido e un po’ goffo il cui talento è sfruttato da un boss opportunista e la cui maniere impacciate sono oggetto di scherno costante da parte dei colleghi. Ma il nerd potenzialmente simpatico di rivela presto un sadico burattinaio che, dopo aver scippato il Dna dei suoi partner di lavoro, li ha ricreati e intrappolati per sempre in una realtà alternativa, ispirata al suo programma favorito, Space Fleet.

In questa realtà, lui si è scritturato nel ruolo dell’eroico capitano dietro al cui sorriso sicuro di sé si cela la minaccia di punizioni terribili (per esempio essere trasformati in un aracnide spaziale, o avere la faccia trasformata in un oblungo rosa che non permette di respirare) per chiunque cerchi di sottrarsi alla ripetitività tirannica delle sue trame. Soli solamente quando il vero Daly abbandona il pod cerebrale con cui accede al gioco per aprire alla delivery della pizza, gli avatar hanno ormai rinunciato all’idea della fuga e si sono dati alla bottiglia. Li scrolla dalla loro rassegnazione l’arrivo sull’astronave di Nanette, una nuova impiegata, «zappata» anche lei, nel ruolo di esperto scientifico della navicella, in minigonna. Decisa a non sottomettersi alla fantasia egocentriche del programmer (che includono flirtaggi già identificati da alcuni recenso come sexual harrassment), Nanette organizza una rivolta perché gli avatar possano riconquistare il controllo di sé stessi.

Per Daly, invece, è prevista una specie di dannazione spaziale. Lo scarto tra USS Callister e Arkangel, che lo segue, è molto forte, specialmente se i due episodi sono visti subito uno dopo l’altro. Da una parodia della sci-fi televisiva anni sessanta a un look indie-realistico. Dalle fantasie malate di un fan-boy a un cautionary tale su quelli che qui chiamano genitori elicottero, cause la loro apprensività.

L’arcangelo del titolo è il programma di sorveglianza con cui Marie, controlla tutto quello ciò che fa sua figlia Sara. La chip, inserita nel cervello della bimba dopo che si era allontanata da sola durante una visita ai giardinetti, non solo permette alla mamma di vedere tutto quello che lei fa, ma ha un’option di parental control che sfoca le immagini di ciò che potrebbe turbarla – dal cane abbaiante dei vicini, ai compagni che litigano. Sara cresce quindi in una bolla iperprotetta e con un senso della realtà inesistente. Prevedibilmente, le cose si complicano con il passare degli anni e quando Marie interviene una volta di troppo, e in modo radicale, «per il suo bene». Nel rapporto complesso tra questa mamma single e sua figlia si può tracciare l’interesse di Jodie Foster, che firma la regia di quest’episodio anomalo in cui appare anche la pillola del giorno e che ha un finale emotivamente molto doloroso.